mercoledì 23 settembre 2020

The Book of Vision (Hintermann 2020)

Dopo The Dark side of the sun (2011), che ci aveva strabiliato e commosso, Carlo Hintermann torna ad incantarci con un racconto che fonde storia, scienza, medicina, metempsicosi, spiritualità e fantasia, ancora una volta con il prezioso contributo di Lorenzo Ceccotti, che cura gli effetti speciali, e alle spalle, come produttore esecutivo, Terrence Malick (trailer).
Difficile analizzare la pellicola senza considerare la forte influenza del regista di Badlands (La rabbia giovane, 1973) - di cui vediamo il poster appeso in casa di uno dei personaggi - sul regista romano, che su di lui ha girato, insieme a Luciano Barcaroli, Gerardo Panichi e Daniele Villa, il bellissimo documentario Rosy-Fingered Dawn (2002), oltre a dirigere l'unità italiana per le riprese di The Tree of Life (2011), a Bomarzo e a Villa Lante. 
La presenza di Malick aleggia virtuosamente, e che il direttore della fotografia sia proprio Jörg Widmer (La vita nascosta - Hidden Life), non può non acuirne la sensazione, soprattutto quando vediamo gli attori all'interno del bosco, inquadrati dal basso verso l'alto o nella sequenza in cui i protagonisti recitano di fianco a due splendidi fenicotteri rosa e a un grande pappagallo variopinto.
Oltre all'eccellente fotografia di Widmer, che in carriera ha lavorato anche con Wenders, Tarantino, Haneke, Polanski e Spielberg, anche l'ottima scenografia è affidata ad un mostro sacro come David Crank, collaboratore di Malick proprio per The Tree of Life, ma già presente in opere come Il Petroliere (Anderson 2007), The Master (Anderson 2012), Lincoln (Spielberg 2012), mentre i costumi, altrettanto fondamentali in un film come questo, sono curati da Mariano Tufano che, dopo aver esordito con Nuovomondo (Crialese 2006), aveva partecipato soprattutto a pellicole italiane prive di quel respiro internazionale che ora, invece, ritrova pienamente. 

La pellicola mostra, ad esergo, un aforisma tratto dal romanzo Diceria dell'untore (1981) del poeta siciliano Gesualdo Bufalino, "il problema non è essere, ma essere di nuovo", che sullo schermo compare ridotto e tradotto in inglese, "to be again, this is the problem". Una riduzione significativa e che pone l'accento sull'idea della reincarnazione, che è alla base delle ellissi temporali che caratterizzano l'intera pellicola, ambientata in parte ai giorni nostri e in parte nel Settecento prussiano, ma con la presenza degli stessi attori.
Eva (Lotte Verbeek, bellissima e, non a caso, molto somigliante a Jessica Chastain) è un medico-chirurgo, specializzatasi in applicazioni tecnologiche in campo oncologico. Ha abbandonato la sua carriera per studiare la vita del dottor Anmuth (Charles Dance), vissuto nel Settecento alla corte del generale prussiano von Ouerbach (Filippo Nigro), la cui moglie, Elizabeth, è interpretata dalla stessa attrice olandese. Anche Dance, oltre a interpretare il medico del XVIII secolo, è anche il dottore e professore universitario Baruch Morgan, che ha in cura proprio Eva, così come Anmuth è il medico di riferimento per Elizabeth e forse qualcosa di più. Tra loro, sia nel presente che nel passato, si pone Stellan (Sverrir Gudnason), giovane medico oggi, che si innamora e inizia una relazione con Eva, oltre ad essere allievo e collega di Morgan, ma che ha un parallelo settecentesco nel dottor Lindgren, chiamato da Ouerbach a sostituire Anmuth.
Una delle chiavi del film è racchiusa in una frase pronunciata dal dottor Anmuth e scritta nel suo libro, che Eva studierà tre secoli dopo: "Quando possiamo sapere con certezza che le nostre motivazioni sono sincere? Solo quando le nostre azioni non appartengono alla nostra natura. E come sappiamo che le nostre azioni non appartengono alla nostra natura? Soltanto quando percorriamo due strade opposte allo stesso momento". Quelle strade sono le differenti epoche vissute dagli stessi enti, ma anche il diverso sentire che in uno stesso tempo caratterizza la medesima persona, le contraddizioni che ci governano e che nel film si esplicano soprattutto nella fusione di scienza e credenza.
Avvicendamento è una parola chiave nella fitta trama creata da Carlo Hintermann e Marco Saura, poiché Anmuth viene accantonato proprio perché la scienza sta avanzando e i suoi metodi, ancora troppo ancorati ad antiche credenze, vengono ritenuti fuori tempo. Eva è interessata proprio a questo, convinta che la storia possa darle chiavi interpretative su quello che accade oggi: "quando i medici hanno smesso di ascoltare i pazienti?" è una delle prime frasi che rivolge ad un infatuato Stellan, per spiegargli il senso del suo lavoro.
Non sempre ciò che è passato andrebbe accantonato, è questo che arriva forte e chiaro da The Book of Vision. Non a caso i personaggi cui va l'empatia del regista sono tutti quelli che non si appiattiscono su questa logica: Eva e Elizabeth su tutti, ma anche Anmuth, ovviamente, e altre due figure che esistono solo nel passato. La prima è il piccolo Valentin Ouerbach (Rocco Gottlieb), secondogenito dei nobili prussiani, curioso e ribelle, capace di dare del maleodorante all'aio che gli fa lezione, totalmente differente dal fratello maggiore, Günter (Justin Korovkin), zelante e perfetto, anche troppo... La seconda è Maria, la ragazzina (Izol'da Djuchauk) benvoluta da Anmuth e che ha uno splendido rapporto con Valentin, ma considerata una strega dal generale, per la sua sensibilità spirituale ed esoterica. 
Elizabeth, Anmuth, Valentin, Maria costituiscono una sorta di resistenza ad un passato che sta scomparendo, in vista di un positivismo che è di là da venire, ma di cui già si vedono le prime avvisaglie nel Settecento.
Le credenze su una maledizione che impedirebbe alle donne di partorire, però, legata a un grande albero nel bosco, ha qui sostanza visiva e trova conferma negli studi di Elizabeth, che sull'argomento trova persino un'eloquente incisione in un antico volume, che corrisponde esattamente a quello che vediamo accadere nella sezione settecentesca della storia (con un feto che nell'immaginario cinefilo, anche per la sua portata simbolica, rimanda a quello di 2001. Odissea nell spazio - Kubrick 1968).
La regia funziona e molto bene: sono tanti i momenti che rubano l'occhio allo spettatore, sin dalla prima sequenza, in cui la mdp cala dall'alto, stile Notorious (Hitchcock 1946) per intenderci, ma poi non termina le sue evoluzioni su un dettaglio, come nel caso della famosa chiave di Ingrid Bergman, e risale in alto, seguendo in un rapido piano sequenza l'incontro di Eva e Stellan prima fuori e poi dentro la grande biblioteca.
Una scena di dialogo, in cui il generale Ouerbach spiega al dottor Anmuth i motivi che lo spingono ad accantonarlo e a preferirgli Lindberg, è girata senza l'ausilio del campo e controcampo, ma con la mdp che si sposta continuamente e con magistrale fluidità. Sì, la fluidità della mdp è una delle caratteristiche di tutti i movimenti di macchina del film, che accompagnano i personaggi e allo stesso tempo coccolano lo spettatore. Non poco.
Hintermann conosce a menadito la storia del cinema e il Settecento non può non fargli pensare a Barry Lyndon (Kubrick 1975): il piccolo Valentin sembra esemplato su Bryan Patrick Lyndon, il figlio di Redmond nel celebre precedente, immancabile punto di riferimento di iconografia cinematografica infantile del Settecento; e così in una scena vediamo Elizabeth affannarsi ad accendere le candele di un ricco candelabro, ottenendo una luce fioca e naturale che tanto ricorda quella che ha reso famosa la fotografia del film di Kubrick. 
Il cinema del passato fa spesso capolino e, almeno dal punto di vista prettamente iconografico, vedere una delle creature nere del bosco ("quelli che chiamano morti") che si immerge nell'acqua, mentre ne distinguiamo solo gli occhi, rimanda inequivocabilmente all'analoga immagine di Martin Sheen-Willard in Apocalypse Now (Coppola 1979). Peraltro, proprio quegli spiriti ricordano molto da vicino non solo gli omologhi della Principessa Mononoke (1997), e Hayao Miyazaki, soprattutto per la commistione natura e spiritualità, è un punto di riferimento imprescindibile per l'atmosfera che si respita in The Book of Vision, ma anche quelli che popolavano le animazioni di The Dark side of the sun
Diverse anche le citazioni artistiche che impreziosiscono la scenografia. Nella residenza von Ouerbach brilla un Ritratto di Filippo II di Tiziano, mentre in casa di Stellan, sopra il lavandino, compare una riproduzione della Maya desnuda  di Francisco Goya (Madrid, Prado). 
Anche nella parte iniziale, la visita al museo della scienza da parte di Eva è un tuffo nelle opere d'arte di ceroplastica dell'epoca, di cui il grande maestro fu il fiorentino Clemente Susini (1754-1814), nonché un possibile rimando al bel saggio di Didi Hubermann, Aprire Venere. Nudità, sogno, crudeltà (ma chiederemo a Carlo se c'entra qualcosa o stiamo esagerando con la sovrainterpretazione). L'ossessione per il corpo e per il suo funzionamento, poi, proietta una linea cronenberghiana sul film che si fa più evidente nella sequenza del parto, in cui è inevitabile pensare ai fratelli Mantle di Inseparabili (Cronenberg 1988).
L'albero della vita del film
e la foto di Franesca Woodman

E poi la fotografia. Uno degli apici visivi di The Book of Vision è senza dubbio il motivo del grande albero del bosco che si anima grazie alle sue radici "umanizzate", un vero e proprio "albero della vita" (The Tree of Life è sempre lì ad un passo), e appare evidente il riferimento a un autoscatto di Francesca Woodman in cui il suo corpo viene ghermito proprio dalle radici di un albero.
C'è spazio anche per la musica, altra grande passione di Hintermann, che compare in un cameo nella scena in cui Elizabeth canta Candy Says, brano dei Velvet Underground per l'occasione suonato dagli Errichetta Underground (ascolta), band romana che fa musica balcanica, klezmer, jazz e folk, tra i cui membri ci sono, anche sul palco del locale in cui è ambientata la sequenza appunto, i fratelli Carlo e Gabriele Hintermann. 
Lo stesso gruppo suona molti altri pezzi della bella colonna sonora di Hanan Townshend e Federico Pascucci, altro membro degli Errichetta, tra cui i tre atti di Chasing Lovers (1, 2, 3) o il motivo dedicato a Elizabeth. Bellissimo è anche il brano coristico  In your eyes del compositore neozelandese che ha lavorato con Terrence Malick per The Tree of LifeTo the Wonder (2012) e Knight of Cups (2015).
Hintermann con i due protagonisti e gli "spiriti neri"
Abbandonarsi a The Book of Vision significa rinunciare a un po' di rigidità e a parte del nostro mondo quotidiano, accettando sogni premonitori, salti temporali e ardue evoluzioni che prevedono anche la difficile compresenza in scena di personaggi del passato e del presente, ma ne vale davvero la pena. Poesia ed estetica ripagano ampiamente.
E sappiate che in fondo anche la morte in questa realtà altra non è altro che rimanere "in punta di piedi in attesa di una nuova visione"...

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