sabato 5 settembre 2020

La vita nascosta - Hidden Life (Malick 2019)

Terrence Malick torna, dopo anni, a mettere in scena una storia propriamente detta, per quanto, il suo stile rarefatto e riflessivo caratterizzi anche questa pellicola tratta da una vicenda vera, quella del contadino austriaco, obiettore di coscienza durante la Seconda guerra mondiale, Franz Jägerstätter (trailer).
Il titolo, invece, allude ad una frase inserita alla fine del film, tratta dal romanzo Middlemarch di George Eliot (1871): «Il bene crescente del mondo è parzialmente dipendente da atti ignorati dalla storia; e se le cose non vanno così male per te e per me come avrebbe potuto essere, si deve in parte al numero di persone che vissero fedelmente una vita nascosta, e riposano in tombe dimenticate».

1939. Nel piccolo villaggio dell'Alta Austria di Sankt Radegund, Franz (August Diehl) e Franziska (Valerie Pachner) sono una coppia di giovani sposi, nati e cresciuti lì tra le montagne, che hanno creato una famiglia di cui fanno parte anche tre bambine.
Il film si apre con le immagini delle adunate di Hitler con cui contrastano le splendide inquadrature naturalistiche dei luoghi abitati dai protagonisti e dai loro compaesani, tra distese verdi e fiorite, vita semplice e pace assoluta (la fotografia è di Jörg Widmer). Una didascalia, però, ci ricorda che i soldati austriaci in quegli anni dovevano prestare giuramento proprio al führer tedesco. Questo il tema attorno a cui ruota l'intera pellicola, poiché Franz, chiamato a servire la patria, per indomita coerenza, decide di non piegarsi a quest'obbligo per questioni etiche e di fede, una fede che, come sarà costretto a rendersi conto, è più radicata in lui che nei rappresentanti della Chiesa.
Malick, superfluo dirlo ma impossibile non notarlo, gira con la solita maestria, con carrelli che permettono alla mdp di insinuarsi negli spazi esterni e interni della casa degli Jägerstätter; surcadrage sghembi dalle porte, uno dall'interno di un pozzo e, il più bello, tra le assi di una staccionata. Tra le tantissime inquadrature che rubano l'occhio, però, quella con Franz di spalle che falcia l'erba in quello scenario montano e ventoso lascia letteralmente senza fiato.
Il regista di The Tree of Life (2011), capolavoro a cui rimandano diversi momenti poetici del film, soprattutto di gioiosa vita familiare precedenti alla chiamata alle armi di Franz, riesce pienamente nella sfida di far entrare lo spettatore in empatia con i personaggi. In questi momenti e non solo, inoltre, il contrappunto musicale di James Newton Howard rende tutto ancora più suggestivo, ispirato e struggente, con gli archi che sembrano diffondere il suono tra quelle montagne (ascolta).
Nel cinema fatto di occhi, cuore e anima di Malick, la strenua obiezione di coscienza di Franz si carica di valenze spirituali e filosofiche immancabili nella sua opera (si pensi non solo alla pellicola che vinse la Palma d'Oro a Cannes nel 2011, ma anche ai pensieri del colonnello Tall e degli altri soldati messi su grande schermo ne La sottile linea rossa, 1998, o a quelli sull'amore negli ultimi lavori, da To the Wonder, 2012, a Song to Song, 2017).
Il film, ancora una volta, è soprattutto un film fatto di interiorità, ma Malick analizza e ci mostra anche l'interazione e l'emotività dei due protagonisti con gli altri personaggi. In questo senso è significativo il semplice passaggio della bicicletta del postino, che mette angoscia agli sposi, in attesa del temuto reclutamento. E, allo stesso modo, l'evoluzione del rapporto con i compaesani che, a partire dal sindaco (Karl Markovics), a mano a mano isoleranno Franz e Franziska, perché ribelli al pensiero comune, perché non si sottopongono a quello a cui tutti si sottopongono, accusati di snobismo e presunzione.
Ma dov'è il confine tra supponenza e fermezza delle proprie idee, tra rispetto degli altri e rispetto di se stessi? Tra tradimento e coerenza? È questo che interessa al filosofo Malick (laurea ad Harvard e per anni docente al MIT di Cambridge in Massachusetts), che gira diverse sequenze di confronto verbale, tra Franz e il parroco del paese, ma anche con il vescovo della diocesi, con gli altri abitanti del paese e persino con la moglie e la madre, anche loro in fondo convinte che un giuramento, se poi aggirato dalla pratica nei fatti, sia solo fatto di parole vacue - "parole, nessuno gli dà importanza" -, un concetto ribadito anche dall'avvocato: "a Dio non importa cosa dici ma solo cos'hai nel cuore".
"Il tuo sacrificio non gioverebbe a nessuno" gli ripete il sacerdote di Sankt Radegund che, anche di fronte ai dubbi del fedele dissidente ("se coloro che ci guidano sono malvagi?"), lo incalza con fermezza "hai un dovere verso la madre patria, è la Chiesa che te lo dice"; "ti impiccheranno" gli urla contro il sindaco; "il mondo è più forte, ho bisogno di te" è la frase di Franziska, che nella sua crisi religiosa chiede, durante una preghiera, "Signore, non fai niente [...] perché ci hai creato?"; "tu sai cosa significa crescere senza un padre", infine, chiude la madre agendo sui sensi di colpa di Franz nei confronti delle tre figlie che, peraltro, vengono colpite dalle pietre degli altri bambini, pronti a seguire il pessimo esempio degli adulti.
Ancora più diretto sarà un intendente del carcere per dissidenti e squilibrati in cui Franz viene rinchiuso prima del processo: "è orgoglio? sei migliore degli altri? come sai ciò che  bene e ciò che è male?". E così lo stesso giudice Lueben (ultimo ruolo interpretato da Bruno Ganz) ribadirà il concetto dell'inutilità del suo integralismo, assicurandogli che "il mondo andrà avanti com'era prima", sentendosi rispondere "non posso fare quello che reputo sbagliato".
Sono voci fuori dal coro il padre di Franziska, che lo sostiene - "meglio subire un'ingiustizia che compierla" -, e il pittore del paese che, senza mezzi termini, lo conforta affermando "ti chiedono di giurare fedeltà all'Anticristo". Non è un caso che proprio a lui, pur se un personaggio minore, vengano riservate altre notevoli linee di sceneggiatura sul senso del suo mestiere: "noi creiamo ammiratori, non creiamo seguaci", dice a Franz mentre sta lavorando sui ponteggi, ed è consapevole di dipingere sofferenza ma non soffre in prima persona, una riflessione che sembra essere un parallelo di ogni forma di rappresentazione artistica, compresa ovviamente quella cinematografica.
Su tutte, però, la battuta in cui precisa "i fedeli credono che se fossero vissuti ai tempi di Cristo non avrebbero fatto del male a quelli che ora adorano" è quella che più delle altre illumina il senso della pellicola di Malick, sulla relatività del concetto di giusto e sbagliato a seconda dei tempi e del contesto specifico in cui si vive. Chi si distanzia dall'idea dominante è costretto a soffrire, come Franz, eroe attuale, traditore per l'epoca, che però ha la lucidità per sentenziare che "c'è differenza tra la sofferenza che non possiamo evitare e quella che scegliamo", e la consapevolezza di aver scelto la propria idea di libertà, come scrive in una lettera a Franziska (l'intero film è basato sull'epistolario di Franz e la moglie): "anche se ti scrivo con le mani legate è sempre meglio di avere la volontà legata".
Il carattere cristico di Franz è evidente - gli studi cristologici di Malick anche - e, ad ulteriore riprova, uno dei compagni di cella parlando con lui indica quello di cui c'è bisogno con una frase eloquente: "abbiamo avuto venti secoli di fallimenti, ci serve un santo vincente!"
La preghiera nei campi e l'Angelus
di François Millet
Potrebbe essere un cortometraggio a se stante la sequenza dell'esecuzione, in cui Malick sottolinea la burocrazia e l'iter pratico della condanna, che aumenta lo strazio dell'attesa. La gira come una scena da circo, con un boia che indossa un'alta tuba degna di un domatore e delle grosse tende che separano dalla stanza con la ghigliottina.
Che la regia guardi particolarmente all'arte è palese, sia per alcune inquadrature di interni che fanno pensare a dipinti fiamminghi, sia per altre che sembrano rimandare a celebri opere del passato. Si va così da Franziska disperata e inginocchiata a terra, come la Maddalena di Antonio Canova (Genova, Palazzo Bianco) o la Fiducia in Dio di Bartolini (Milano, Museo Poldi Pezzoli), alle immagini dei contadini che seminano (Il seminatore al tramonto - Otterlo, Museo Kröller-Müller e Winterthur, villa Flora) o, in una citazione ancora più stringente, si fermano per pregare, proprio come ne L'Angelus di François Millet (Parigi, Musée d'Orsay), fino al bellissimo momento di confessione in cui Franz e il suo confessore sono illuminati solamente da una candela, come in un dipinto di Gerrit van Honthorst.
Allo stesso tempo Malick, oltre alle già citate atmosfere rarefatte del suo cinema precedente, da La sottile linea rossa e da The tree of life, sembra recuperare anche qualche ricordo agreste de I giorni del cielo, e guardare Valerie Pachner con un fazzoletto in testa davanti ad un'immensa distesa di grano a perdita d'occhio fa subito ricordare la Abby interpretata da Brooke Adams nel capolavoro del 1978.
Filosofia, religione, libero arbitrio, amore, società, resistenza, disobbedienza, ingiustizia... c'è ancora una volta tanto, tantissimo nel cinema di Malick, difficile vederlo rimanendo impassibili. Ne vale sempre la pena per sentirsi scuotere dentro.

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