venerdì 11 settembre 2020

Dogtooth (Lanthimos 2009)

"Il 'mare' è una poltrona di pelle.
Esempio: - Siediti sul mare e chiacchiera un po' con me.
'Autostrada' è un vento molto forte.
'Carabina': una carabina è un bellissimo uccello bianco."

Inizia così il secondo lungometraggio del talentuoso regista greco Yorgos Lanthimos che, prima del grande successo arrivato con The Lobster (2015), Il sacrificio del cervo sacro (2017) e, quindi, La favorita (2018), aveva realizzato altri tre film, Kinetta (2005), mai distribuito in Italia, Dogtooth appunto, e Alps (2011).

Il canino che dà il titolo al film, che rientrò nel quintetto delle nomination all'Oscar per il miglior film straniero nel 2011, è riferimento al dente (Kynodontas in originale) che, secondo la teoria oscurantista del padre (Christos Stergioglou) della particolarissima famiglia greca protagonista, dovrebbe cadere come segno della maturità di un figlio: "Quando un bambino è pronto a lasciare la sua casa?", "Quando il canino destro cade". "Solo allora l'organismo è pronto ad affrontare tutti i pericoli che ci sono fuori". E così, per poter guidare, dovrebbe attendere la ricrescita dello stesso dente (trailer).
Le frasi iniziali, che i tre figli (Angeliki Papoulia, Christos Passalis, Mary Tsoni) ascoltano da un mangiacassette in un bagno piastrellato e algidamente bianco, fanno parte di questo enorme inganno cui sono sottoposti, dato che ogni parola che possa fargli aprire gli orizzonti viene attentamente censurata nel suo significato originario e trasformata in altro. Lo stesso vale, ad esempio, per 'escursione', considerata un materiale per pavimenti, e 'zombie', un fiorellino giallo.
Anche la madre (Michele Valley) sembra essere vittima dello stesso inganno ma, allo stesso tempo, fideisticamente complice del marito, è solo uno degli elementi stranianti di una pellicola che si immerge tra la distopia e il grottesco degno di Luis Buñuel, immancabile punto di riferimento di Lanthimos, che in realtà, in questo caso, è in evidente debito con Castillo de la Pureza, pellicola del messicano Arturo Ripstein (1972), cineasta che fu assistente alla regia ne L'angelo sterminatore (1962), capolavoro antiborghese e anticlericale del maestro spagnolo.
Come nei film di Buñuel, infatti, la borghesia è un coacervo di ipocrisie, falsità e censure attuate per mantenere lo status quo. La metafora di una famiglia-società così strutturata, in cui una donna e i tre figli non possono uscire da una casa, per quanto lussuosa e piena di comfort, per evitare di affrontare i rischi della vita, a causa di un'educazione coercitiva e asfissiante, porta con sé inevitabili desideri di fuga...
Date queste premesse, l'umorismo nero e alienante del soggetto e della sceneggiatura, scritta dal regista insieme a Efthymis Filippou, sono una diretta conseguenza. Così un gatto può essere raccontato come una minaccia feroce, con tanto di messa in scena con sangue finto e vestiti lacerati appositamente, e costringere tutti i membri della famiglia ad abbaiare come dei cani, mentre Frank Sinatra, che canta Fly to the moon dal giradischi del salotto (vedi), diventa il nonno mai conosciuto a cui i ragazzi sono affezionati.
Il padre ha pensato a tutto, anche all'educazione sessuale del figlio maschio (neanche a dirlo), cui però viene detto che la fica, nella consueta trasformazione lessicale operata in famiglia, è solo una grande lampada. Per lui ha assoldato Cristina, una ragazza della security nell'azienda in cui lavora (come dirigente, ovvio), che porta bendata in casa di tanto in tanto per farla accoppiare, in scene di sesso meccanico con cui si sarebbero perfettamente associati i versi di Personal computer di Franco Battiato (1985). Sono davvero mondi lontanissimi quelli di Lanthimos ed è indicativo che un aeroplanino giocattolo sia uno degli oggetti più agognati dei tre ragazzi, pronti a picchiarsi per ottenerlo, ai bordi di una piscina che è, nel loro immaginario deviato, un luogo in cui arrivano pesci che il padre prontamente caccia con maschera e fucile da pesca.
È una realtà senza tempo quella della famiglia protagonista, come ogni allegoria che si rispetti, anche se gli oggetti che costellano il film rimandano abbastanza chiaramente agli anni '80, quelli in cui è cresciuto Lanthimos (classe 1973): mangianastri, giradischi, walkman, videocamera e vhs, ma anche la totale assenza di computer o cellulari.
Nella villa la vita prosegue tra le regole - persino il cane deve essere addestrato lungamente in canile prima di poter entrare in casa - e la deroga al sistema, per i ragazzi, è data da piccole azioni di libertà quotidiana, dal lasciarsi svenire con un fazzoletto imbevuto di cloroformio al tagliare i piedi delle bambole; dal colpirsi l'un l'altro per sfogare la propria rabbia all'uccidere con delle cesoie il "ferocissimo" gatto che si aggira nel giardino.
Persino il sesso, anche al di là della presenza di Cristina, è incanalato in una rigida logica causa-effetto: il cunnilingus, ma anche leccare una spalla o altre parti del corpo ad un altro membro della famiglia, sono pratiche ripetute tra i ragazzi e considerate comuni forme di pagamento per ottenere favori o piccoli oggetti. I genitori, invece, lo fanno indossando delle cuffie, ascoltando musica, guardando dei porno distrattamente, per poi annunciare la pronta nascita di due gemelli, uno spauracchio per i tre già grandi, che rischierebbero di perdere ulteriore spazio. Quest'assurdità, finalizzata ad ottenere ancor più obbedienza dai figli, che solo così potrebbero evitare quelle nascite, non è la più grande, poiché padre e madre annunciano che a breve la donna partorirà anche un cane (sic). Tutto, evidentemente, deve avvenire all'interno della famiglia.
I figli non possono crescere, né evolvere in alcun modo in questo ambiente; vengono chiamati ancora "bambini" e che siano rimasti molto più infantili della loro età appare evidente non solo nei comportamenti ma anche dai dettagli delle loro camere, in cui spiccano letti con adesivi fanciulleschi alle testiere e alle pediere.
Il terrore del padre, retrostante al suo modus operandi, è tutto nell'anatema pronunciato nei confronti di Cristina: "ti auguro di avere figli che subiscano le influenze sbagliate e vengano su male".
La regia è perfettamente attagliata alla scenografia: fredda e chirurgica, rinuncia spesso alle teste dei personaggi, lasciate fuori dalle inquadrature, in una continua spersonalizzazione evidenziata anche dalla sceneggiatura che non dà un nome a nessuno dei tre ragazzi.
Lanthimos, mantenendo sempre i toni ironici e grotteschi, cita anche Shining (Kubrick 1980), all'inizio della buffissima festa di anniversario di matrimonio dei genitori, con le due figlie che ballano accompagnate dalla musica suonata dal fratello, che iniziano la loro esibizione in piedi una di fianco all'altra, in una posa che tanto ricorda quella delle gemelle dell'horror tratto da Stephen King, non proprio un riferimento rassicurante per le due ragazze.
E così, è impossibile non pensare anche a The village (2004), l'inquietante capolavoro di Shyamalan in cui i confini del villaggio sono segnati da barriere invalicabili decise dal consiglio degli anziani. Qui, però, non c'è consiglio, ma la dittatura di un padre a dir poco paranoico dai pericoli esterni.
Le immagini di Lanthimos, e il suo surrealismo, sono affascinanti e cupamente ironici anche in questa pellicola che per tanti versi appare più acerba dei capolavori recenti, ma che aiuta a capire il percorso di un autore salito alla ribalta negli ultimi anni e che merita tutta la nostra attenzione.

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