domenica 28 aprile 2024

Civil War (Garland 2024)

Alex Garland, finora più famoso come sceneggiatore per Danny Boyle (28 giorni dopo, 2002 e Sunshine, 2007) che come regista, al suo sesto film dietro la mdp fa davvero centro! Civil War è una pellicola importante, differente da tanti altri film di guerra, ben scritta, ben girata, ben strutturata e ben recitata.
Eppure sedersi in sala e vedere il solito presidente degli Stati Uniti che prova il solito discorso alla nazione, in cui parla bene dei suoi e condanna gli avversari, chiudendo con l'altrettanto solito "god bless America", non sembra porci di fronte a qualcosa di nuovo (trailer).
E invece ad ascoltarlo bene, al di là delle formule notissime che caratterizzano certi tipi di discorsi e certi tipi di situazioni, c'è una novità assoluta che ci dà la dimensione in cui siamo, un futuro distopico non troppo lontano da noi, che tecnicamente potrebbe anche essere presente: i nemici di cui parla, infatti, sono la California e il Texas, alleate nelle Western Forces (per tutto il film le si cita come WF), stati ribelli che cercano di contrastare il suo potere e di deporlo, se non peggio. Nel corso del film, infatti, apprendiamo che il presidente (Nick Offerman), è diventato un dittatore che ha accentrato il potere su di sé arrivando persino a cancellare realtà istituzionali come l'FBI. Negli Stati Uniti, quindi, si sta combattendo una guerra civile, quella che dà il titolo al film, lontana dalla storia del paese dal 1861-1865, quando gli stati si scontrarono nel conflitto tra Nord e Sud.
Il regista, a cui va il merito dell'ideazione del soggetto e, ovviamente, della redazione della sceneggiatura, decide di farci seguire la guerra non dal punto di vista di una delle due fazioni, ma da quello di uno sparuto gruppo di membri della stampa che vogliono raccontare quella storia stando in prima linea. Si tratta di quattro persone: una famosa fotografa di guerra, Lee Smith (Kirsten Dunst), un giornalista suo coetaneo, Joel (Wagner Moura, il Pablo Escobar dell'omonima serie tv), un collega anziano amato da tutti, Sammy (Stephen McKinley Henderson), e una giovane fotografa ventitreenne che ammira Lee e vorrebbe diventare come lei, Jessie (Cailee Spaeny, appena reduce dalla Coppa Volpi per Priscilla di Sofia Coppola, che dimostra anche qui tutta la sua bravura).
Il film è un road movie che porta i protagonisti e gli spettatori da New York, dove si combatte in strada e dove Lee conosce Jessie salvandola da colpi e bombe in piena strada, a Washington, dove Lee e Joel vogliono arrivare per fotografare e intervistare il presidente, nonostante Sammy cerchi di dissuaderli. Il percorso trasformerà la pellicola in una storia di iniziazione e di crescita umana e professionale per la giovane Jessie e di riflessione, condivisione e vita nella sua essenza per tutti gli altri.
Civil War in tal senso, con le debite differenze, ricorda Apocalypse Now (1979). Del capolavoro di Francis Ford Coppola condivide proprio questo spazio liminale tra vita e morte, in cui l'uomo è cancellato e in cui la speculazione filosofica è tutto ciò che resta, pur se affrontata con atteggiamenti differenti, la saggezza (Sammy), il cinismo (Lee), la razionale eccitazione (Joel), l'entusiasmo del neofita (Jessie). Non a caso, proprio in uno dei momenti in cui vita e morte si toccano, Jessie ammetterà con una certa sorpresa "non ho mai avuto tanta paura in vita mia e non mi sono mai sentita più viva".
Nella pellicola di Garland, però, il tema del giornalismo e della fotografia prevalgono anche su quello bellico ed è inevitabile ravvisare nella storia una riflessione sulla loro natura, tra vocazione per la notizia e per lo scatto ed egocentrismo finalizzato a lasciare un segno ai posteri. L'amore per un mestiere che, fatto sul campo in questo modo, da prokoumenoi, ti dà l'adrenalina cui si riferisce Jessie, ma anche quella che spinge tutti gli altri sempre un passo più avanti, pur di giungere a ottenere l'immagine che entrerà nella storia o la dichiarazione che finirà nei libri di storia. Quella vocazione può anche dare un senso all'esistenza, come sembra essere soprattutto per Lee, che non riusciamo a immaginare in una vita borghese come tante, nemmeno quando Jessie le fa indossare un abito femminile e le fa osservare la sua bellezza davanti a uno specchio. 
È un pesce fuor d'acqua in quelle condizioni, non è a suo agio, il suo carattere spigoloso e incline alla cupezza la descrive come la meno adattabile a una vita diversa da quella che ha scelto, a cui ha destinato tutte le energie. Il suo è un bisogno di essere e di incidere oltre ogni limite, un horror vacui che va oltre il mestiere, una filosofia di vita di chi non ha nulla da perdere anche perché, forse, non ha altro in cui credere. E, non va dimenticato, che scattare è come sparare (shot in inglese vale per entrambe le azioni), mirare è mettere a fuoco, scegliere l'inquadratura e quella necessità di guardare coi propri occhi, lasciare un segno e la propria impressione su un tema è la stessa che anima anche il cinema. Non stupisca, quindi, che nel film di Alex Garland la vera protagonista sia proprio Lee Smith e che siano la capacità di "vedere" e di "far vedere" i temi più importanti, tanto più che Lee viene dal Missouri, che, come ricorda la sceneggiatura, per soprannome ha "lo stato del fammi vedere" ("Show me state"), perfetto per chi vuole andare in fondo alle cose ma anche per chi appunto lavora con la vista!
Le strade che i quattro percorrono sono vuote o occupate da auto abbandonate che danno immediatamente l'immagine di un deserto di lamiere, che tanto ricorda panorami a cui la distopia ci ha abituato, in serie tv recenti come The walking dead, ma soprattutto al cinema, con esempi quali The Day After (Meyer 1983), L'alba del pianeta delle scimmie (Wyatt 2011) e, ancora di più, 28 giorni dopo (Boyle 2002), perché scritto proprio da Alex Garland.
Il regista londinese gira bene e modula le immagini e il sonoro in maniera sopraffina: grazie allo sguardo privilegiato della fotografia praticata dalle due donne, fa piombare anche noi all'interno dell'azione, fissando le immagini più devastanti attraverso gli scatti delle loro reflex, rigorosamente in bianco e nero e in pellicola, ed elimina l'audio nei momenti di massimo pathos, lasciando sul grande schermo quei volti trasfigurati da urla silenziose che esprimono un dilaniante dolore. L'effetto che ne risulta è del tutto simile a quello che proviamo davanti ai dipinti più tragici, come L'urlo di Munch o Guernica di Picasso, solo per citarne un paio in cui il dolore assoluto e il dolore causato dalla guerra sono protagonisti. In sala accade proprio quello che di solito avviene di fronte a queste opere: anche il silenzio del pubblico si fa totale, in un annichilimento dato dalla forma dell'opera e dall'empatia di chi guarda. Lo straziante urlo di Joel o l'immagine di un prigioniero a cui i nemici danno fuoco tenendolo incastrato con il busto all'interno di uno pneumatico entrano di diritto tra le immagini più forti e iconiche del cinema di inizio XXI secolo.
Che la forza delle immagini sia uno dei temi del film e che certe impressioni restino nella mente per sempre, Garland ce lo mostra anche attraverso il personaggio di Lee che, immersa nella vasca di un hotel, rivede tutte le atrocità accumulate nel tempo, tra cui proprio quella appena citata.
Il nome di Lee, impersonata da una straordinaria Kirsten Dunst che recita per tutto il film con uno sguardo spento allineato a un temperamento fortemente indurito dalla vita, è un omaggio a Elizabeth Miller (1907-77), detta Lee Miller appunto, grande fotografa e modella che iniziò con Man Ray e proseguì con Roland Penrose. La celebre fotografa viene esplicitamente citata dalla sceneggiatura, quando Jessie, appena conosciuta Lee, le rivela di essere una sua ammiratrice e che quel nome le ha sempre fatto pensare anche a Miller. 
Tanti i momenti in cui la durezza o il lirismo delle immagini si avventa sullo spettatore, stimolandone la sensibilità anche con il basilare contributo della colonna sonora. Ne sono ottimi esempi la quiete dopo la tempesta di uno dei conflitti a fuoco con il sottofondo del rap Say no go (De La Soul); la poesia delle fiammelle della guerra in lontananza nel buio della notte, accompagnata da Breakers Roar (Sturgill Simpson), prima di arrivare a Charlottesville; gli scontri a Washington tra il Lincoln Memorial e il grande lago artificiale antistante e poi alla Casa Bianca, cui fanno da contrappunto le note di Moving out (Ben Salisbury e Geoff Barrow); il finale con Suicide (Dream Baby Dream)
Altro episodio di grande impatto è quello che genera una tensione assoluta in chi guarda, quello del gruppo di protagonisti che s'imbatte - subito dopo un momento fin troppo goliardico, ma necessario per tutta l'agitazione accumulata -, in un soldato ultranazionalista che uccide tutti coloro che a suo avviso non hanno un pedigree perfettamente statunitense. La sequenza è perfetta e il personaggio interpretato dal bravissimo Jesse Plemons, con dei capelli biondo platino e degli occhiali da sole dalle lenti rosse che lo rendono ancora più inquietante, assume i caratteri tipici dell'uomo armato che fa domande al malcapitato di turno, sapendo di poterne decidere il destino, qualcosa di vicino, tra i tanti, al Samuel Jackson di Pulp fiction (Tarantino 1993) o al David Harrelson di Assassini nati (Stone 1994).
Civil war
 è un film che non può lasciare indifferenti e molte battute della sceneggiatura restano in testa nei giorni che seguono la visione... tra le più rilevanti quella pronunciata a Joel, che non vede l'ora di poter intervistare il presidente degli Stati Uniti, da Sammy, che rispetto alla cattura dei dittatori prova a disilluderlo con una frase di grande realismo e spessore socio-politico: "quelli che vengono presi, Gheddafi, Mussolini, Saddam Hussein sono sempre inferiori a quello che pensavi". Alex Garland sembra voler ricordare, a chi non lo avesse già chiaro, che il potere è umano e che gli uomini che ne vengono colpiti non sono quasi mai così grandi come quando li vediamo da lontano...

martedì 23 aprile 2024

Cattiverie a domicilio (Sharrock 2023)

Una commedia dal tono dissacrante all'interno del contesto perbenista inglese di inizio '900, ancora figlio dell'epoca vittoriana, tecnicamente finito con la morte della regina nel 1901, ma che di fatto caratterizzò anche buona parte del secolo breve.
Thea Sharrock recupera una storia vera, come precisa la frase in esergo al film - "questa è una storia più vera di quanto si pensi" -, la affida alla sceneggiatura di Jonny Sweet, il comico che l'ha riscoperta, e all'interpretazione della sempre ottima Olivia Colman e di Jessie Buckley, oltre a una serie di caratteristi del cinema inglese, tra cui l'immarcescibile Timothy Spall. Ne viene fuori una pellicola piacevole in stile prettamente british, che cavalca il tema della storica discriminazione sulle donne, spesso rinfocolata da altre donne, in una guerra fra poveri senza quartiere, ma non certo un film indimenticabile (trailer).

venerdì 19 aprile 2024

E la festa continua (Guédiguian 2023)

Amore, politica, filosofia, passione, identità e Jean Luc Godard.
Così si potrebbe riassumere l'ultimo intenso, poetico ed eccezionale film di Robert Guédiguian, che a settant'anni ci racconta ancora la sua Marsiglia, andando a recuperare le sue origini armene, lui figlio di padre armeno e di madre tedesca. Stavolta, però, non c'entrano i lavoratori del porto, quanto la recente storia della città più grande della Francia meridionale e il crollo di due palazzi nel 2018, tra rue d'Aubagne e rue Jean Roque, nel primo arrondissement, che causò la morte di otto persone. Il film è dedicato alla comunità di quel quartiere, che ha deciso di dare un nome a quel luogo e di chiamarlo Place du 5 novèmbre 2018 (trailer).

domenica 14 aprile 2024

May December (Haynes 2023)

Todd Haynes è un regista raffinato e di talento. Il suo impegno civile nel panorama queer fece del suo debutto, Poison (1991), un caso che colpì frontalmente l'opinione pubblica e gli spettatori di allora. Ad oggi il suo capolavoro indiscusso va riconosciuto nel bellissimo Lontano dal paradiso (2002), in cui Dennis Quaid viveva la terribile realtà, negli Stati Uniti del perbenismo anni '50, di un marito che aveva sposato una donna, pur essendo omosessuale, per rispondere al modello sociale della famiglia perfetta.
La moglie in quel film era interpretata da una straordinaria Julianne Moore, a cavallo del 2000 indubbiamente una delle attrici migliori al mondo. La stessa attrice, che ha interpretato oltre quello altre tre pellicole con il regista losangelino, è oggi una delle due protagoniste dell'ultimo metacinematografico lungometraggio di Haynes, al fianco di un'altrettanto straordinaria Natalie Portman (trailer).

lunedì 8 aprile 2024

Priscilla (Coppola 2023)

L'ultimo film di Sofia Coppola è un'antifiaba. Adattamento del romanzo Elvis and Me scritto da Priscilla Presley con Sandra Harmon (1985), è caratterizzato da una grande eleganza e comunica una costante tensione interiore in grado di creare una totale empatia tra lo spettatore e il personaggio principale, attorno a cui ruota tutto il resto. 
Priscilla è una pellicola riflessiva che fa della misura e del minimalismo la sua forza, analizzando con realismo una relazione fondata su basi psicologiche impari che vengono scandagliate e mostrate allo spettatore dal punto di vista della protagonista, interpretata da una straordinaria Cailee Spaeny, che per questo ruolo ha vinto la Coppa Volpi a Venezia ed è stata candidata al Golden Globe (trailer).