martedì 5 novembre 2019

Quattro mosche di velluto grigio (Argento 1971)

Un batterista prima, poi un intero gruppo che suona, una sorprendente soggettiva impossibile dall'interno della cassa armonica di una chitarra, il tutto alternato, grazie al montaggio, ai titoli di testa sui quali compare un cuore pulsante. Una zanzara disturba i musicisti, ma alla fine del brano, composto dai Deep Purple per l'occasione, il batterista la ucciderà tra i piatti del charleston (trailer).
Con questa ipertrofica sequenza inizia Quattro mosche di velluto grigio, terzo film dell'allora trentenne Dario Argento e ultimo episodio della cosiddetta trilogia degli animali, dopo L'uccello dalle piume di cristallo (1970) e Il gatto a nove code (1971), anche se lo stesso regista lo ha sempre considerato slegato dagli altri.
Nella stessa sequenza, peraltro, il cineasta romano non si limita a quanto descritto, ma trova il modo di aggiungere anche l'inquietante figura di un uomo vestito di scuro e con occhiali da sole che in piena serata osserva suonare il gruppo dall'esterno; un rapido flashback del batterista che riguarda quell'uomo è la premessa dell'omicidio fulcro della vicenda: il ragazzo, Roberto Tobias (Michael Brandon, che sostituì Michael York impegnato su un altro set e che, per stessa ammissione di Dario Argento era stato scelto anche per la somiglianza con sé) seguirà quell'uomo e, minacciato, lo ucciderà col suo stesso coltello all'interno di un grande teatro abbandonato, dalla cui galleria qualcuno lo fotografa immediatamente.
Per lo spettatore è davvero impossibile non lasciarsi coinvolgere nell'intrigo e nel mistero, tanto più che il fotografo in questione indossa una strana maschera infantile e che, da quel momento in poi, inizierà a tormentare Roberto con oggetti del defunto, dispetti, animali morti. Oltre, naturalmente, a tutti i motivi tipici della poetica di Dario Argento: giovani membri della buona società, relazioni complicate, disturbi psicologici, dettagli pulp mai lesinati, ma resi con gran classe e visionarietà.
Ogni scena porta con sé il carattere ansiogeno del genere: inseguimenti, omicidi in luoghi silenziosi e angusti, urla, squilli di telefono in pieno silenzio, ma anche i semplici dialoghi tra amici comunicano un disagio continuo dei personaggi che investe sempre anche lo spettatore. Il racconto di un amico sulla tecnica del boia durante le esecuzioni capitali in Arabia Saudita, ad esempio, diventerà per il protagonista un sogno ricorrente, che nel corso della storia si arricchirà via via di ulteriori fotogrammi.
Roberto rivelerà quanto gli è accaduto alla moglie Nina (Mimsy Farmer) e cercherà di indagare su chi lo sta tormentando. Nina non reggerà lo stress della situazione e deciderà di allontanarsi dalla città, lasciando il marito che, mentre si ritroverà in casa con la cugina di Nina, la bellissima Dalia (Francine Racette, che dal 1972 sarà la terza moglie di Donald Sutherland).
Tra gli altri personaggi, spiccano dei piccoli ruoli che, nel tentativo di controbilanciare la tensione del film, assumono però toni accostabili alle più dozzinali commedie italiane degli anni '70-'80.
Questo vale per Bud Spencer, nei panni di Diomede, che tutti chiamano Dio (quando compare è introdotto da un esilarante Hallelujah), e che vive in una baracca sulle rive del Tevere, con un pappagallo che si chiama Affanculo; per Oreste Lionello, in quelli del Professore, anche lui vagabondo lungo il fiume. Su tutti, però, l'investigatore Arrosio (Jean-Pierre Marielle), che lavorerà per Roberto, un omosessuale dichiarato e molto effeminato, che "in tre anni di onorata professione non ho risolto neanche un caso" e che interpreta il proprio lavoro come se fosse un giocatore del lotto: "statisticamente parlando una delle più impressionanti sequenze negative è destinata ad essere interrotta, 84 fallimenti un record fantastico, assolutamente favoloso; una serie così non può essere interrotta".
Le sue indagini proseguiranno, ma Dario Argento non può fare a meno di trasformarlo in macchietta, facendogli incontrare un omosessuale ancora più sopra le righe di lui, con un'ironia di grana grossa, che oggi risulta datata, e che si ripete, in maniera più funzionale e meno volgare, nella scena in cui Roberto, con Diomede e il Professore, si ritrovano ad una fiera dove assistono alla presentazione di bare con tanto di venditore che promuove ricchi sconti, basi rotanti e prove del prodotto ("nessun nostro cliente dopo averla acquistata ha mai reclamato perché si è trovato scomodo"; "modello a due piazze per un decesso duplice"), che si alternano al discorso dei tre che fanno il punto della situazione su quanto sta accadendo nella vita di Roberto.
La mdp fa spesso movimenti che vanno dal grande al piccolo, una pratica tipicamente hitchcokiana che non è l'unico dettaglio che Dario Argento recupera dal maestro del brivido. Ne è un perfetto esempio la telefonata della domestica Amelia (Marisa Fabbri) che, dopo aver sentito in casa la confessione di Roberto alla moglie, rivela a qualcuno quanto ha carpito: la mdp la inquadra da lontano nella cabina, per poi avvicinarsi e seguire il filo del telefono, tra i palazzi, fino ad arrivare alla cornetta dell'ignota persona che ha ricevuto quella chiamata.
La soggettiva dall'interno della chitarra, descritta all'inizio del film (recentemente una cosa simile è stata fatta dai Coen ne La ballata di Buster Scruggs), è solo la prima delle tantissime trovate registiche messe in atto da Dario Argento. Le soggettive saranno  anche nelle sequenze destinate al maniaco, mai inquadrato naturalmente.
Qua e là la mdp fa altri movimenti a effetto, tra i quali lente rotazioni attorno ai personaggi, panoramiche a schiaffo, fino al ralenti, che caratterizza il finale.
Anche lo split screen non può mancare in un thriller degli anni '70 e, puntualmente, compare per mostrare il telefono da una parte e l'uomo che lo utilizza dall'altra, ma ancora meglio, in versione "naturale", in un'inquadratura che riprende allo stesso tempo sia il flusso dei passeggeri che salgono sia quelli che scendono le scale della metropolitana.
In una pellicola che parte dalle fotografie di un omicidio, inoltre, il riferimento a Michelangelo Antonioni e al suo Blow up (1966) è palese e vedere i negativi di quegli scatti in uno dei passaggi successivi non fa che amplificare la citazione. Qui, però, Dario Argento, porterà al parossismo il motivo di quella che potremmo chiamare "registrazione visiva", quando per un altro omicidio gli investigatori proporranno di effettuare un esperimento sugli occhi del cadavere, per ricavarne l'ultima immagine fissata dalla retina, un'idea già utilizzata da Jules Verne a fine '800 e in una storia di Diabolik.
A ricordarlo è stato Luigi Cozzi, coautore del soggetto insieme al regista e a Mario Foglietti, che al contempo ha dichiarato che l'idea, però, non gli venne da questi precedenti, ma da un articolo del Corriere della Sera che riportò la notizia della sperimentazione di una macchina del genere in Germania. Solo così convinse Dario Argento, che non avrebbe accettato nulla di completamente fantastico. La stessa attenzione alla tecnica messa al servizio delle indagini, inoltre, sarà un motivo fondamentale in Blow Out di De Palma, che tanto deve sia ad Antonioni che ad Argento ma che, rispetto ai loro film, sposterà il soggetto dalla vista all'udito.
Il film è ambientato in una città fantastica costituita da un insieme di luoghi diversi di differenti città italiane, cosicché il riconoscimento delle location risulta un perfetto intrigo nell'intrigo, per sciogliere il quale è possibile avvalersi del consueto e prezioso aiuto del davinotti.com. A Torino sono inscenate diverse sequenze: gli studi di registrazione in cui suonano Roberto e i suoi amici sono quelli dell'Auditorium RAI di Piazza Rossaro; il flashback iniziale di Roberto avviene nel giardino La Marmora; il protagonista insegue l'uomo misterioso nella galleria Umberto I, mentre il teatro in cui avviene l'omicidio è, dall'esterno, il conservatorio Giuseppe Verdi a Torino, mentre all'interno è il Teatro Sperimentale di Spoleto. Torinese è anche il bel palazzo liberty, che Argento mostra più di una volta e che si trova in via Duchessa Jolanda, all'angolo con via Collegno, strada in cui peraltro, al n.45, è il palazzo in cui Arrosio incontra il portiere gay di cui si è detto.
Lo stesso investigatore è poi a Milano quando scende in metro, ma la cosa buffa, magia della magia del montaggio, è che la stessa sequenza è girata in ben quattro fermata diverse: San Babila, Conciliazione, Lotto e Duomo.
A Roma, invece, si va dalle ville dell'EUR, in una delle quali vive Roberto, a ridosso del laghetto artificiale (via dell'Esperanto 23) alla fontana delle Cariatidi di piazza dei Quiriti, dove Maria Pia (Costanza Spada, pseudonimo di Laura Troschel) si incontra con un uomo; dal Villino Crespi, che fa da casa di cura per malati mentali, qui chiamata Villa Rapidi, alle rive del Tevere a ridosso di ponte Marconi (lo stesso che appariva in costruzione in Europa '51 di Rossellini al passaggio di Ingrid Bergman), dove vive Diomede, per poi tornare all'EUR, all'interno del Palazzo dei Congressi, che fa da obitorio dalle altissime vetrate intervallate da pilastri marmorei, in cui il commissario propone a Roberto di utilizzare la macchina per ottenere l'ultima immagine vista dal cadavere.
Sono, invece, i giardini della splendida Villa d'Este a Tivoli, con tanto di labirinto degno di Shining (Kubrick 1980) o de Il racconto dei racconti (Garrone 2015), quelli in cui va, per poi essere inseguita dalla consueta presenza invisibile, per noi in soggettiva, la domestica Amelia.
Una location è anche fuori dall'Italia ed è ovviamente quella dell'ossessivo incubo di Roberto, con la scimitarra che si abbatte sul collo di un condannato a morte dopo che uno stiletto lo ha infilzato un attimo prima, ambientata nella Grande moschea di Kairouan, in Tunisia.
Per la colonna sonora, come nei precedenti due film di Argento, alla fine venne scelto Ennio Morricone, nonostante inizialmente vennero contattati i Deep Purple, troppo impegnativi economicamente per la produzione e sempre in viaggio per poter assicurare il tipo di collaborazione che avrebbe voluto il regista. La musica di Morricone, come di consueto, si pone a contrasto con il soggetto del film sia nel brano principale, Come un madrigale, sia negli altri, caratterizzati da archi e voci soffuse.
Un horror imperdibile e fondamentale nella filmografia di Dario Argento e del cinema italiano.

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