lunedì 4 luglio 2022

Esterno notte - I e II parte (Bellocchio 2022)

Diciannove anni dopo Marco Bellocchio torna sul caso Moro, narrando e approfondendo tutto ciò che è accaduto attorno al rapimento tra politica, opinione pubblica, Vaticano e tanto altro ancora (trailer). Al punto di vista dei rapitori, utilizzato in Buongiorno, notte (2003), stavolta il regista emiliano, che infatti ha definito questo "il controcampo" del film di allora, dedica solo il quarto dei sei episodi che costituiscono la pellicola, che sarà anche una miniserie tv, in sala divisa in due parti, di tre capitoli ciascuna.
Bellocchio ha realizzato un altro capolavoro, fornendo un'analisi asciutta e, per quanto possibile, oggettiva di quanto accadde in quel terribile periodo pasquale del 1978, un evento che ha sconvolto l'Italia e di cui si sente ancora forte l'eco. La regia del cineasta di Bobbio, che dirige gli attori in maniera sopraffina, è ottima, e questo non sorprende, nulla è lasciato al caso e, molto spesso, singoli dettagli nelle inquadrature appaiono così significanti da suggerire ulteriori visioni del film.  
In una delle prime sequenze, ad esempio, alcuni estremisti entrano in un negozio di armi e lo razziano rompendo vetrine e scaffali. Dall'altra parte della strada, a far da sfondo alla scena, c'è un cinema che ha in programmazione Anima persa, thriller di Dino Risi (1977), con Vittorio Gassman e Catherine Deneuve, il cui titolo non può non essere considerato in relazione a quanto sta avvenendo lì di fronte.
Il cast è straordinario, a partire da Fabrizio Gifuni, per chi scrive il miglior attore italiano vivente, che interpreta Aldo Moro in maniera decisamente impressionante, per proseguire con il solito ottimo Toni Servillo, nei panni di papa Paolo VI, e un eccezionale Fausto Russo Alesi, che dà il volto a Francesco Cossiga. Bravissimi anche Fabrizio Contri come Giulio Andreotti, Margherita Buy, che impersona Eleonora Moro e Paolo Pierobon, che presta il volto al cardinal Curioni.
La storia si sviluppa soprattutto nelle due settimane che vanno dal 12 al 26 marzo, sabato di Pasqua di quell'anno, racchiudendo il contesto politico all'interno della Democrazia Cristiana e del Paese prima del rapimento di Aldo Moro, il rapimento stesso e le azioni e le reazioni finalizzate a liberare quello che per molti sarebbe stato uno dei futuri presidenti della Repubblica.
Cossiga, Andreotti, Zaccagnini
Il film inizia con una sequenza immaginifica, nella quale Aldo Moro in ospedale riceve la visita dei vertici della DC, Giulio Andreotti, che proprio il 13 marzo 1978 era diventato Presidente del Consiglio per la quarta volta, Francesco Cossiga, allora Ministro degli Interni, e il segretario del partito, Benigno Zaccagnini. La voce off di Moro accompagna la scena: il politico rassegna le dimissioni dalla DC e da ogni futuro incarico legato al partito. Bellocchio prima di raccontare i fatti fornisce il suo punto di vista, forte e netto come sempre: Moro è ormai un personaggio troppo ingombrante per il suo stesso partito e non può più esserne parte. La sequenza tornerà nel finale del film, montata subito dopo il ritrovamento di Moro, vivo, a via Caetani, nel portabagagli della Renault 4: la storia che cambia, come in C'era una volta a... Hollywood (2019), ma Bellocchio non può essere Tarantino, e la realtà prevarrà in tutto il suo realismo ai limiti del documentario, in cui sconfinano poi i filmati di repertorio e non sui titoli di coda che mostrano gli eventi successivi, dai funerali in forma familiare a Torrita Tiberina a quelli in Laterano senza la salma; dalle parole di Sandro Petrini appena nominato presidente della Repubblica, che cita Moro come colui che doveva essere al suo posto, agli arresti del 29 maggio 1979 di Adriana Faranda e Valerio Morucci, fino alla proclamazione di Francesco Cossiga a presidente della Repubblica il 29 giugno 1985...
Difficili le relazioni di potere all'interno della DC, con un Andreotti privo di scrupoli, pronto a sacrificare tutto pur di mantenere lo status quo, eppure sconvolto dalla notizia del rapimento, almeno sul momento, poiché dopo, come fioretto, si limiterà a rinunciare al gelato dopo i pasti. Cossiga, invece, è profondamente combattuto tra l'affetto per Moro e la ragion di Stato e, non a caso, è lui che per lunghi tratti di questa prima parte assume il ruolo di protagonista. Il suo rapporto con Aldo Moro è quello dell'allievo con il maestro o persino oltre, quando arriva a definirlo un secondo padre: è lui a chiedergli della difficile situazione a casa con sua moglie, sposata dopo un matrimonio combinato, in uno dei bellissimi dialoghi iniziali, in cui i due appaiono amici e confidenti più che colleghi. Cossiga è quello che più di ogni altro all'interno del partito vorrebbe salvare Moro, pur se consapevole che la sua salvezza sarebbe in contrasto con la protezione dell'integrità del Paese. In un'altra sequenza memorabile, girata con una panoramica in soggettiva dallo sguardo dello stesso Cossiga, in una riunione operativa con i generali di esercito, marina, aviazione e altri membri della Difesa, il suo pensiero riassume la totale inadeguatezza di quelli che definisce "fascisti o ex fascisti e appartenenti alla P2". Non ha di meglio a disposizione, nonostante chi gli è di fronte proponga assurdità anticostituzionali come fissare una taglia sui colpevoli o reintrodurre la pena di morte.
La DC, a tratti, ricorda quella trasfigurata di Todo modo (Petri 1976): i suoi membri pronunciano frasi come "siamo persone per bene", quasi per autoconvincersene, e protestano quando le poltrone non bastano per tutti, in una sequenza grottesca e magnifica per la capacità di sintetizzare in pochi secondi la bassezza di certe dinamiche di potere.
La personalità di Aldo Moro è tutta nei suoi toni, nelle sue espressioni, nei suoi gesti, sempre misurati, nella capacità di mediare tra le diverse correnti della DC, persino quando si mostra convinto di dover riconoscere al PCI il suo importante ruolo politico, arrivando a considerarlo un partito che serve allo stesso modo della DC a mantenere saldi gli equilibri sociali, un'idea che lo rende un precursore, dimostrando quanto fosse decenni avanti rispetto ai suoi colleghi. Lo vediamo iconicamente sul balcone di palazzo Cenci-Bolognetti, storica sede della Democrazia Cristiana, la sua silhouette ben riconoscibile prima di spalle e poi frontalmente, ma anche nella sua vita familiare.
In un'altra bella e accurata sequenza, rientra in casa ed effettua gesti consueti che sembrano ripetersi con una certa ritualità: posa il cappotto, si lava le mani, si misura la pressione (uno sfigmomanometro sarà ritrovato tra gli oggetti personali di Moro nell'auto, dopo il rapimento), con la radio accesa consuma una cena frugale che si prepara da solo, rifiutando la collaborazione dell'autista, attende il rientro dei figli, rimbocca le coperte al nipotino e, infine, va a dormire al fianco della moglie Eleonora. Il dialogo con sua figlia Agnese, poi, mostra le debolezze, le incertezze, ma anche l'orgoglio di come sia riuscito a non pronunciare la parola comunismo "per non spaventare i recalcitranti", in più di un'ora di discorso alla sede della DC, in cui alla "passionalità" politica del Paese ha contrapposto le "strutture fragili" e il bisogno che tutti remino nella stessa direzione ("ripeto a tutti stiamo uniti [...] oggi è il tempo della responsabilità").
In quest'ottica la paura dell'unico che sembra capirlo, Francesco Cossiga, è soprattutto rappresentata dagli Stati Uniti, incapaci di comprendere le sfaccettature della situazione italiana e abituati a ragionare in termini binari. Non a caso Bellocchio ci mostra spesso Cossiga a dialogo con il consulente americano Steve Pieczenik, su una scenografica terrazza che dà sulla Colonna Traiana, i fori e il Vittoriano (il monumento immortalato con le bandiere a mezz'asta dopo il rapimento).
Il Ministro degli Interni appare costantemente dilaniato tra nevrosi, sensi di colpa e ossessioni shakespeariane, ai limiti dell'esoterico: dopo aver parlato di fantasmi, arriverà a vedersi osservato da Moro in una delle famose foto inviate dai sequestratori. Cossiga si ritroverà in veri e propri gironi infernali, come le stanze di un ospedale psichiatrico o la centrale in cui si effettuano i controlli telefonici, nella quale ascolterà la storia narrata da un uomo che ha sogni premonitori, che ha visto Trotzki con la testa insanguinata indicargli proprio il ghetto, dove verrà trovato il corpo di Aldo Moro 55 giorni dopo il rapimento.
Molto evocativo anche l'incontro tra Moro ed Enrico Berlinguer, che Bellocchio immagina di sera, davanti al monumento di Giuseppe Mazzini, sopra il Circo Massimo: una conferma di quel "compromesso storico" che di fatto, dati gli eventi, non avverrà mai. Il dialogo tra i due si svolge in auto, mentre fuori gli uomini delle rispettive scorte parlano di calcio e di campionato (uno di loro, con spiccata cadenza pugliese dice che la Juve ruba e cita un fuorigioco non fischiato ad Antonello Cuccureddu): Aldo Moro non può fare a meno di notare che il popolo non sembra avere percezione di tutte le questioni politicamente determinanti che loro stanno affrontando.  
La ricostruzione della strage di via Fani, di quel 16 marzo 1978, è perfetta: l'uscita di casa, le auto, l'angolo con via Stresa in cui tutto avvenne, la velocità di quell'impressionante manovra dei terroristi, vestiti da aviatori - con le divise cucite dalla brigatista Adriana Faranda (Daniela Marra) -, che sparano sui cinque uomini della scorta, senza un errore, un'imprecisione, tanto da generare molti sospetti sulla partecipazione di altre forze all'operazione. Ogni dettaglio è curato con attenzione, anche il 
Ford Transit del fioraio ambulante Antonio Spiriticchio, a cui i brigatisti squarciano gli pneumatici per non permettergli di essere lì quella mattina; il corpo del "presidente" prelevato, lasciando gli occhiali e il giornale (il quotidiano della DC, il Popolo) che stava leggendo un attimo prima sul sedile posteriore della tristemente famosa Fiat 130 berlina blu (oggi conservata al Museo del Centro Superiore Ricerche e Prove della Motorizzazione Civile di Roma in via di Settebagni, così come l'Alfetta 1.8 della scorta è al Museo delle Auto della Polizia di via dell'Arcadia). Tutto, peraltro, verrà ripetuto nella seconda parte della pellicola per altre due volte, quando rivedremo l'attentato prima seguendo la preparazione e l'attuazione da parte dei brigatisti e poi la reazione e l'arrivo all'incrocio di via Fani di Eleonora Moro.
Bellocchio, nella quarta e quinta sezione della pellicola, declina la storia al femminile e fornisce soprattutto il punto di vista di due donne, Adriana Faranda e la stessa Eleonora Moro. Di entrambe vediamo la vita quotidiana. Della prima la relazione con il compagno brigatista, 
Valerio Morucci (Gabriel Montesi), la difficile separazione dalla figlia Alexandra, affidata alla nonna e salutata davanti alla scuola (la scena è girata davanti alla "Cesare Battisti", in piazza Damiano Sauli, alla Garbatella, già resa celebre da Nanni Moretti in Caro diario, 1993), ma anche lo scontro con la visione maschile delle BR.
Adriana, infatti, deve confrontarsi non solo con Valerio, ma anche con Mario Moretti (Davide Mancini) e con il loro atteggiamento paternalistico rispetto alle donne all'interno dell'organizzazione, intransigenti sulle scelte da prendere e sempre poco democratici ("noi lo processiamo, noi lo condanniamo, noi lo uccidiamo"). In tal senso Valerio arriva a dire ad Adriana, contraria all'uccisione dell'ostaggio, che sono parte di un esercito e che gli ordini si eseguono senza discuterli. E in effetti, il regista, mutuando una delle immagini più iconiche di Gomorra (Garrone 2008), dispone l'intero gruppo di brigatisti sul bagnasciuga a Ostia, a sparare contro il mare, urlando in preda al delirio di un'impossibile rivoluzione politica in vista dell'imminente rapimento di Aldo Moro. Tutta l'umanità di Adriana, delusa dalle BR che hanno rinunciato all'ideale accontentandosi di essere "eroi perdenti", poiché, come le ripete Valerio - che pure va al cinema a vedere Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah (1969) - "la mia fantasia non ci arriva", è tutta nella sua commozione davanti ai funerali della scorta di Moro visti in tv e negli incubi (virati in grigio) in cui vede i cadaveri, tra cui quello di Moro, galleggiare sul fiume.
La scena in Santa Maria in Trastevere con il portone
di Palazzo San Callisto
Tra le location, oltre quelle già citate, vediamo Piazza Santa Maria in Trastevere, dove Adriana, Valerio, Mario e un'altra brigatista si incontrano; Porta Pia e il sottopasso dove viene lasciato il primo comunicato delle BR per i giornali; la Stazione Ostiense, da dove viene fatta l'ultima telefonata dei brigatisti prima dell'assassinio di Aldo Moro, in cui Eleonora Moro viene scambiata con una delle figlie, nonché il cimitero acattolico di Testaccio, dove i brigatisti fanno tappa con le auto nel percorso per portare la Renault a via Caetani. In una scena si vede anche papa Montini-Servillo accompagnato in sedia a rotelle per il palazzo Apostolico, ma che in realtà è la sala da pranzo estiva di palazzo Chigi, già storica location per Il Gattopardo (Visconti 1963). 
Nella parrocchia di quartiere la moglie di Moro, come Adriana Faranda, è colta dai dubbi che rivela nel confessionale. I suoi dubbi, però, riguardano il rapporto matrimoniale, non si sente amata da anni, messa in secondo piano dai tanti impegni politici del marito, quelli su cui punti il confessore per ribadire l'impegno e le responsabilità nei confronti del paese dell'uomo che ha scelto. Fatalmente tutti i dubbi cadranno davvero nel dimenticatoio subito dopo e, nella difficoltà del momento, Eleonora diverrà il cardine della battaglia, persa, per salvare il marito, di fronte ad un'assurda fermezza dello Stato, che nasconde la volontà di sbarazzarsi di Moro, sintetizzata dagli scontri della donna con Zaccagnini e Cossiga, fino al simbolico incatenamento davanti a Palazzo Bolognetti, e da una sua splendida e profetica battuta: "loro considerano tutti pazzi. Quando il partito dei pazzi sarà la maggioranza cambieranno idea, ma sarà troppo tardi".
Sarà lei a parlare con i figli, a placare le ire della primogenita ("siamo cristiani, ama il tuo nemico"), ad accogliere in casa i massimi vertici della DC (Andreotti escluso, che Eleonora senza mezzi termini definisce "serpente") e anche il Presidente della Repubblica Giovanni Leone, nonché ad andare a cercare il marito dove una suora dice di averlo visto entrare bendato, per poi scoprire che lì, in un momento totalmente metacinematografico, il professore di teatro Cappuccio, della Federico II, sta mettendo in scena un film sul rapimento di Moro con i suoi allievi. Com'è naturale che sia, quasi a lenire quel dolore enorme, nella distanza e nell'impossibilità di vedersi, le lettere piene d'amore di Aldo dalla cella ad Eleonora, che sorride nel rivedere quel "Carissima Noretta" con cui iniziavano le lettere del loro fidanzamento.
Tornando al rapimento, la fedeltà filologica di Bellocchio, oltre a mostrare l'annuncio da parte di un giovanissimo Bruno Vespa al tg1, osservato con sgomento da Paolo VI, arriva ad evidenziare l'uso del cilicio da parte del pontefice, una pratica consueta che però il segretario Macchi rivelò solo dopo la morte di papa Montini. 
C'è spazio anche per narrare la tesi del complotto e del depistaggio, affidato al famoso comunicato del 18 aprile - forse l'unica deroga temporale successiva al 26 marzo -, che si rivelerà opera di Antonio Chichiarelli, falsario di opere d’arte contemporanea, in particolare di Giorgio de Chirico, in cui lo statista della DC viene dichiarato morto per suicidio. Secondo quella tesi, il corpo sarebbe stato poi immerso nel lago di Duchessa, nel reatino, al confine tra Lazio e Abruzzo: il lago, però, ghiacciato già da settimane, avrebbe costretto i brigatisti a rompere il ghiaccio e a sperare nella sua ricostituzione in breve tempo, una lectio difficilior davvero improbabile, che sembrava presupporre una mediocre conoscenza del territorio ("sarebbe stato un miracolo" commentano il papa e il suo segretario particolare). Anche in questo caso, Bellocchio si avvale dei filmati di repertorio di un tg, stavolta presentato da Emilio Fede.
Molto dettagliati, poi, i personaggi di Domenico Spinella (Piergiorgio Spinella), capo della polizia, e del cardinal Cesare Curioni (Paolo Pierobon), cappellano del carcere di San Vittore. Il primo a guidare le indagini dopo il rapimento e il secondo, 
per conto del papa, sulle piste collaterali, che lo portano a seguire in tribunale - in un'ennesima sequenza di grande impatto - il processo ai fondatori delle BR (iniziato proprio nel marzo 1978), in cui dalla gabbia allestita in aula uno degli imputati urla "le Brigate Rosse esistono, e sono qui dentro e sono fuori e sono dappertutto", prima che tutti gli astanti cantino InternazionaleE, in effetti, qui e altrove la colonna sonora con le musiche originali di Fabio Massimo Capogrosso ha un ruolo rilevante, creando grande tensione col motivo della goccia di Opening o con quelli ossessivi di Scontri in piazza del Gesù o di Attentati BR. Tra i brani del passato, invece, su tutte si ricordi la canzone portante della pellicola, Porque te vas, scritta da José Luis Perales e cantata dall'inglese naturalizzata spagnola Jeanette, per il film di Carlo Saura Cria Cuervos (1976), che a Cannes vinse il premio della giuria, nell'edizione in cui la giuria presieduta da Tennessee Williams assegnò la Palma d'oro a Taxi Driver di Martin Scorsese.
Tornando alla figura di Curioni, la sceneggiatura, che Bellocchio ha scritto con l'aiuto di Stefano Bises, Ludovica Rampoldi e Davide Serino, rivela momenti profondi nei dialoghi tra lui e il pontefice, con cui il cappellano del carcere di San Vittore si interfaccia direttamente. Tra questi si impone la relazione che il prelato riporta a Paolo VI sull'inesistente rapporto tra mafiosi e brigatisti, i primi, nonostante tutto, credenti, cattolici e frequentatori di chiese, i secondi atei e quindi molto più lontani dalla fede. Tale distinguo sembra cancellare ogni possibilità di dialogo per il papa, che pure tenterà di scrivere ai sequestratori, oltre a raccogliere 20 miliardi per il riscatto, che definisce "lo sterco del diavolo", in un'operazione da cui prendono le distanze sia Andreotti, considerandola "la sconfitta dello Stato", così come Berlinguer, contrario alle trattative con le BR, che definisce "un piccolo branco di assassini"), chiedendo al limite una trattativa segreta e per questo suscitando l'ironia del giovane Bettino Craxi ("questi sono i comunisti").
Più volte, nel corso del film, Moro viene rappresentato come un vero e proprio agnello sacrificale, con tanto di parallelismo con la figura di Cristo: a dimostrarlo la locandina, che mostra lo scudo crociato della DC con il perimetro costituito da una corona di spine; la prima scena che lo vede moribondo al cospetto dei principali colleghi della DC; la presa di distanza di chi dovrebbe sostenerlo, novelli apostoli pieni di contraddizioni e di paure rispetto alle sue proposte, davvero troppo futuristiche per i tempi. E poi la notte da tregenda precedente al rapimento, tra lampi, tuoni e temporale, che riecheggiano la narrazione evangelica della Crocifissione, con la visione di papa Montini che, allettato per le sue condizioni di salute, segue la via Crucis del venerdì santo in tv, immaginando Aldo Moro avanzare sotto il peso della croce, nell'identificazione cristica più evidente, tanto più accompagnata dal Dies Irae del Requiem di Giuseppe Verdi. Una curiosità, la sequenza televisiva è girata a Cinecittà, nell'ormai stabile set dell'antica Roma, con tanto di basolato da percorrere, creato per la serie HBO Rome, ma da allora spesso riutilizzato in diversi contesti.
Allo stesso modo lo straordinario brano della confessione concessa ad Aldo Moro nell'angusta stanzetta, spesso inquadrata dallo spioncino della porta, ci regala un altro capolavoro interpretativo di quel gigante che è Fabrizio Gifuni. Dapprima Moro condanna i suoi colleghi con un j'accuse di rara intensità, in cui si sente condannato a morte da "amici" in un paese che ha aborrito la pena di morte: "io odio l'onorevole Andreotti"; Cossiga "un ingrato... è bipolare, è ciclotimico, in un processo per Cossiga si potrebbe chiedere la seminfermità"; e che, per la condizione psicologica del personaggio, riecheggia l'«Eloì, Eloì, lemà sabactàni» del racconto evangelico pronunciato sulla Croce da Cristo (Sal 22; Mc 15, 34): "Al di là dell'Inferno, del Paradiso, dell'Aldilà, della luce... che cosa c'è di folle, cosa c'è di folle nel non voler morire, non voglio morire, sì, lo confermo, e allora? Loro mi considerano pazzo, ma io sarei pazzo se non volessi vivere, giusto?" (vedi)
Anche nell'ultima lettera alla moglie, Aldo Moro parlerà della luce, "vorrei capire come ci si vede dopo... se ci fosse luce sarebbe bellissimo", e proprio la luce, peraltro, sarà protagonista in quella stanza di un metro per quattro nell'appartamento dell'interno 1 di Via Camillo Montalcini 8, quando, una volta consegnato il corpo di Moro, uno dei brigatisti distruggerà l'intercapedine in cartongesso che oscurava le finestre, in una scena incredibilmente liberatoria nonostante il terribile esito della vicenda.
La radio, nella scena casalinga già citata con Aldo Moro in cucina, dà notizie curiose come Alberto Moravia sostenitore dell'esistenza degli ufo, o cinefile, con l'annuncio che Gian Maria Volonté interpreterà Carlo Levi nel Cristo si è fermato a Eboli di Francesco Rosi (1979). E così, più avanti, dall'audio di una tv ascolteremo le domande di Mike Bongiorno - su arabi e bizantini nel VII secolo - evidentemente durante Scommettiamo?, trasmissione che andò in onda dal dicembre 1976 al dicembre 1978.
Lo stesso Moro, in un'altra sequenza piena di tensione, con il suo arrivo all'università per una lezione funestata da manifestanti che, oltre a distribuire volantini in cui il nome di Cossiga è contrassegnato dalla doppia SS delle milizie naziste, lo interrompono per parlare di politica, fornisce una citazione cinematografica, iniziando a parlare dello sceneggiato di Pinocchio, evidentemente quello di Comencini del 1972. Il breve viaggio da Monte Mario a piazzale Clodio, passando per la cosiddetta "panoramica" (oggi intitolata a Falcone e Borsellino), è una rassegna di scritte sui muri che inneggiano alla violenza e alla rivoluzione sanguinaria contro il governo, altro modo silenzioso con cui Bellocchio delinea il contesto in cui si viveva in quegli anni di piombo.
Tanta la storia dell'arte visibile nelle scene, tanto da comparire persino in una tv a casa Moro, dove si riconoscono le immagini di un documentario sul ciclo di san Francesco ad Assisi. Bellocchio e il suo scenografo, Andrea Castorina, usano in maniera massiccia le riproduzioni dei dipinti antichi. Nella camera da letto di casa Moro c'è una Madonna col Bambino rinascimentale; in quella della Faranda un dettaglio della Madonna col Bambino di Bartolomé Esteban Murillo (Roma, Galleria Corsini) amata da Flaubert - «Sono innamorato della Vergine di Murillo della Galleria Corsini. La sua testa mi perseguita e i suoi occhi continuano a passarmi davanti come due lanterne danzanti» -; nella sacrestia della chiesa in cui vanno i Moro si vede una Madonna col Bambino di Sassoferrato; dietro la scrivania di Andreotti una grande tela dal soggetto biblico (?), e così in tanti altri ambienti dei palazzi del potere e, naturalmente, del Vaticano ancor di più. 
G. Dughet, Sant'Agostino e il Bambino sulla spiaggia
Dietro il cumulo di soldi per il riscatto compare  la tela seicentesca della collezione Lemme con le Pie donne al sepolcro di Giovanni Maria Morandi, e poi, all'interno della grande sala-ufficio del pontefice, c'è forse il dipinto più significante del film. Mentre Paolo VI sta scrivendo la famosa lettera del 21 aprile alle BR (vedi), scena in cui il papa appare in tutta la sua umana incertezza, quasi infastidito da quell'appellativo, "santità", con cui tutto lo chiamano ("come se fossi davvero un santo"), dietro di lui compare una riproduzione, enorme, del dipinto di Gaspard Dughet che raffigura Sant'Agostino e il Bambino sulla spiaggia (Roma, Galleria Doria Pamphilj, 1651-53), soggetto che mostra la medesima incertezza, tutta umana, del vescovo d'Ippona incapace di comprendere il mistero della Trinità razionalmente. Non certo un caso.
Guardare il film di Bellocchio è davvero come guardare un dipinto antico, perdendosi nei suoi dettagli, come ci si perde nei capolavori... 

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