Dopo Jackie Kennedy, Pablo Larraín affronta un altro personaggio femminile, un'altra first lady che ha segnato il secolo scorso. E lo fa con "una favola tratta da una tragedia vera", come dice la frase in esergo.
Come nel caso di Jackie (2016), in cui la storia era circoscritta ai quattro giorni che intercorrevano tra l'omicidio di John e la partenza dalla Casa Bianca, il regista cileno ha scelto una breve unità di tempo e di luogo, rinunciando anche al minimo appiglio con la narrazione del reale. Stavolta ha immaginato tre giorni a corte, tra la vigilia di Natale e Santo Stefano, a Sandringham House, la splendida villa di campagna reale nel Norfolk, tra regole e ritualità inderogabili, con cui pellicola e sceneggiatura - scritta da Steven Knight - intendono catapultare lo spettatore nella morsa della gabbia dorata, angosciante, in cui Diana è imprigionata (trailer).
Il risultato è notevole, come sempre in Larraín, che riesce a instillare la sensazione di disagio come pochi altri registi al mondo: l'attenzione è catturata completamente e trovare la posizione giusta sulla poltrona diventa un'operazione complicata.
Kristen Stewart, nei panni di Diana, tenta la stessa operazione di Natalie Portman in Jackie: come in quel caso, il lavoro interpretativo è enorme, il suo personaggio è sempre in scena, anche se emerge con maggior evidenza il lavoro del regista piuttosto che dell'attrice, di fatto una "creatura" di Larraín.
Il risultato è notevole, come sempre in Larraín, che riesce a instillare la sensazione di disagio come pochi altri registi al mondo: l'attenzione è catturata completamente e trovare la posizione giusta sulla poltrona diventa un'operazione complicata.
Kristen Stewart, nei panni di Diana, tenta la stessa operazione di Natalie Portman in Jackie: come in quel caso, il lavoro interpretativo è enorme, il suo personaggio è sempre in scena, anche se emerge con maggior evidenza il lavoro del regista piuttosto che dell'attrice, di fatto una "creatura" di Larraín.
La perfezione della campagna inglese fa da cornice a quel "nessuno è al di sopra della tradizione", che il maggiore Alistar Gregory (Timothy Spall) pronuncia al cospetto di una Diana che invece di quella tradizione non ne può davvero più. In quel contesto non c’è futuro, e passato e presente sono la stessa cosa.
Sublime l'inquadratura dall'alto con cui Larraín ci mostra l'arrivo della principessa, in gran ritardo, con la sua Porsche, nella villa, tra i giardini e le siepi sagomate dall'arte topiaria. Anche nella vita reale, Diana era nata nei pressi della residenza reale, a Sandringham, e la finzione della sceneggiatura la fa passare proprio nella proprietà Spencer in cui aveva vissuto sin da bambina e davanti allo spaventapasseri che indossa la giacca del padre.
È uno dei pochi momenti in cui la vediamo serena, poiché una volta entrata nella villa, eccezion fatta per qualche sorriso regalato ai suoi figli e a Maggie (Sally Hawkins), la guardarobiera che proprio per la sua vicinanza alla principessa verrà allontanata, non accadrà più. Diana tornerà durante quei giorni nella casa abbandonata dei genitori e piangerà ricordando se stessa bambina in quel luogo, seduta sul letto in una solitudine e desolazione espressionista che la apparentano a personaggi iconici come la Marzella di Ernst Ludwig Kirchner del Moderna Museet di Stoccolma (1908).
Tra le scene madri la sequenza del confronto tra Diana e Carlo (Jack Farthing) all'interno della sala da biliardo, arricchita da un'imponente libreria, da vasi orientali e da dipinti, tra cui una tavola quattrocentesca italiana dall'aria pinturicchiesca (dietro Carlo) e un trittico fiammingo (dietro Diana): l'impatto e la tensione dell'inquadratura alternata in campo e controcampo da un capo all'altro del tavolo sono straordinari. I due personaggi, inoltre, appaiono sempre più schiacciati dal soffitto verso il grande panno rosso che caratterizza la superficie del biliardo stesso da una mdp che si abbassa sempre di più, contribuendo al senso di costrizione che domina l'intero film. Anche le battute che si scambiano i due sono importanti e Carlo esprime tutta la consapevolezza della condizione di un membro della famiglia reale con un laconico "non vogliono che siamo persone" e spiegando alla moglie che deve imparare a fare cose che detesta, sdoppiandosi in due, la donna vera e quella di facciata.
Diana, però, vuole esserlo e non accetta quelle imposizioni, arrivando a tagliare i fili per riaprire tende cucite per non farla avvistare dai fotografi, ad allontanare la nuova guardarobiera scandalizzandola con un "ora lasciami, ho voglia di masturbarmi".
Sublime l'inquadratura dall'alto con cui Larraín ci mostra l'arrivo della principessa, in gran ritardo, con la sua Porsche, nella villa, tra i giardini e le siepi sagomate dall'arte topiaria. Anche nella vita reale, Diana era nata nei pressi della residenza reale, a Sandringham, e la finzione della sceneggiatura la fa passare proprio nella proprietà Spencer in cui aveva vissuto sin da bambina e davanti allo spaventapasseri che indossa la giacca del padre.
È uno dei pochi momenti in cui la vediamo serena, poiché una volta entrata nella villa, eccezion fatta per qualche sorriso regalato ai suoi figli e a Maggie (Sally Hawkins), la guardarobiera che proprio per la sua vicinanza alla principessa verrà allontanata, non accadrà più. Diana tornerà durante quei giorni nella casa abbandonata dei genitori e piangerà ricordando se stessa bambina in quel luogo, seduta sul letto in una solitudine e desolazione espressionista che la apparentano a personaggi iconici come la Marzella di Ernst Ludwig Kirchner del Moderna Museet di Stoccolma (1908).
Tra le scene madri la sequenza del confronto tra Diana e Carlo (Jack Farthing) all'interno della sala da biliardo, arricchita da un'imponente libreria, da vasi orientali e da dipinti, tra cui una tavola quattrocentesca italiana dall'aria pinturicchiesca (dietro Carlo) e un trittico fiammingo (dietro Diana): l'impatto e la tensione dell'inquadratura alternata in campo e controcampo da un capo all'altro del tavolo sono straordinari. I due personaggi, inoltre, appaiono sempre più schiacciati dal soffitto verso il grande panno rosso che caratterizza la superficie del biliardo stesso da una mdp che si abbassa sempre di più, contribuendo al senso di costrizione che domina l'intero film. Anche le battute che si scambiano i due sono importanti e Carlo esprime tutta la consapevolezza della condizione di un membro della famiglia reale con un laconico "non vogliono che siamo persone" e spiegando alla moglie che deve imparare a fare cose che detesta, sdoppiandosi in due, la donna vera e quella di facciata.
Diana, però, vuole esserlo e non accetta quelle imposizioni, arrivando a tagliare i fili per riaprire tende cucite per non farla avvistare dai fotografi, ad allontanare la nuova guardarobiera scandalizzandola con un "ora lasciami, ho voglia di masturbarmi".
Due oggetti più degli altri dominano l'orizzonte psicologico del personaggio principale: una collana di perle e un libro. La prima si trasforma metaforicamente e nella mente di Diana in un cappio che si stringe sul collo: donata sia a lei che all'amante ormai nota a tutti, Camilla Parker, che Diana vede fuori dalla chiesa dopo la cerimonia natalizia, viene indossata dalla principessa durante un pranzo in cui la realtà non si distingue dalla fantasia e Diana immagina di strapparla davanti agli altri commensali con le perle che finiscono ovunque, anche nella zuppa, per poi mangiarle, in una sequenza tra le più disturbanti del film. Il secondo, invece, è un volume su Anna Bolena, con cui l'identificazione è immediata: la moglie di Enrico VIII, a cui nel 1536 il re fece tagliare la testa per poi sposare in terze nozze Jane Seymour, appare più volte a Diana nei corridoi di Sandringham House, un fantasma che in uno di questi frangenti le dice "ti riempiono gli ovuli di principi e se ne vanno".
Diana si identificherà anche con i fagiani della residenza, vittime sacrificali di una tradizione che vuole che nel giorno di santo Stefano vengano cacciati dai membri della famiglia reale. Anche il primogenito William dovrà farlo, nonostante l'opposizione dichiarata dalla madre, che interromperà il rito avanzando a braccia aperte, come se fosse in volo, pronta ad essere colpita dai cacciatori: "vado a prendere il mio posto tra i fagiani" è il preludio alla libertà.
L'atmosfera kafkiana della pellicola viene amplificata dalle musiche di Jonny Greenwood. Nella colonna sonora del chitarrista dei Radiohead si alternano brani che passano dal classico dell'organo e degli archi al dissonante, in cui pianoforte e sassofono si dirigono su toni jazzistici (Arrival), ad altri in cui il violino da pacificante si trasforma in malinconico e angosciante (The Pearls), fino ad ossessivi motivi di clavicembalo (ascolta), che riportano al Cinquecento di Enrico VIII. Del sovrano, peraltro, su una delle pareti dei saloni vediamo il ritratto di Hans Holbein il Giovane: la riproduzione usata sembra quella del dipinto conservato a Roma, a Palazzo Barberini.
"La bellezza è inutile, la bellezza è un abito". Diana ne è sempre più consapevole e la sua bellezza diventa la sua condanna, il motivo per cui è lì, l'ultimo dei luoghi in cui vorrebbe essere. Si aggira senza sosta tra le ali della residenza, si veste e si spoglia cambiando l'ordine degli abiti che le è stato imposto e arriva a mettere una macchia sulla bellezza diafana del suo corpo, usando una tronchesina per pizzicarsi il braccio, ferendosi. Allo stesso modo, dopo pasti in cui non mangia, si ritrova a vagare nottetempo per le grandi cucine con enormi stanze frigo - il pensiero va subito a Shining - dove mangia compulsivamente e bulimicamente dai vassoi.
La mdp la segue sempre, spesso di spalle, da vicino, mentre cammina affannosamente lungo la guida rossa dei corridoi (proprio come faceva in Jackie). Larraín, però, la riprende anche con un bel carrello orizzontale mentre cammina nervosamente nel parco, a lato di un corso d'acqua in cui si specchia; la vediamo danzare da sola all'interno dei saloni, ma anche correre sull'arenile di una spiaggia in una breve fuga con Maggie.
La mdp la segue sempre, spesso di spalle, da vicino, mentre cammina affannosamente lungo la guida rossa dei corridoi (proprio come faceva in Jackie). Larraín, però, la riprende anche con un bel carrello orizzontale mentre cammina nervosamente nel parco, a lato di un corso d'acqua in cui si specchia; la vediamo danzare da sola all'interno dei saloni, ma anche correre sull'arenile di una spiaggia in una breve fuga con Maggie.
La grande capacità del regista è far vivere lo spettatore in empatia con la principessa, entrando nel suo incubo e assaporando quei pochi momenti di libertà insieme a lei, ricordandoci che tutti noi siamo spesso imbrigliati in ruoli che non vorremmo interpretare e che qualche ribellione è necessaria per ridarci la serenità che cerchiamo. Davvero un gran film!
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