mercoledì 28 gennaio 2015

L'uomo che amava le donne (Truffaut 1977)

Un inno alla gioia che riserva l'amore, uno dei capolavori di François Truffaut, realizzato con molti dei suoi consueti collaboratori: dal soggetto e la sceneggiatura, scritti insieme a Suzanne Schiffman e, stavolta, anche a Michel Fermaud, alla fotografia di Néstor Almendros; dal montaggio di Martine Barraqué alla musica di Maurice Jaubert.
Un eccezionale Charles Denner interpreta il quarantenne Bertrand Morane, irriducibile uomo innamorato dell'amore, di quella sensazione irrefrenabile concentrata nel corteggiamento, nella scossa adrenalinica della conquista, convinto che in ogni donna ci sia qualcosa da cui farsi attrarre. 

L'intero film è concepito come una sorta di soggettiva psicologica, che qua e là diventa anche soggettiva cinematografica, in cui lo spettatore guarda davvero le donne con gli occhi di Bertrand. Fa eccezione, in questo schema, la cornice della storia, ambientata a Montpellier sul finire del dicembre del 1976, costituita dal funerale del protagonista a cui partecipano solo donne che ha conosciuto nella sua vita e che viene raccontato dalla sua ultima conquista, Geneviève, la sua editrice.
È quindi con un flashback che Truffaut dà inizio alla narrazione, introdotta da una frase della bella donna interpretata da Brigitte Fossey, che sottolinea come dalla fossa, in cui la sua bara è stata appena calata, Bertrand potrà vedere per un'ultima volta quello che più amava del corpo femminile, le gambe. Questa battuta permette il passaggio analettico che si apre con la frase più celebre e, forse, la più bella del film, pronunciata dallo stesso Bertrand:
"Le gambe delle donne sono dei compassi che misurano il globo terrestre in tutti i sensi, donandogli il suo equilibrio e la sua armonia". 
Una frase, quest'ultima, che sembra scaturire da Jacques Audiberti ("le splendide gambe delle hostess si scompongono negli aeroplani"), scrittore e poeta amico di Truffaut, che ne sintetizzava la poetica dicendo che "Tutto Audiberti è in questa frase: la bellezza irraggiungibile delle donne, e l'aspetto catastrofico della vita".
Bernadette e Bertrand
Tutto il film è un flashback in cui vediamo Bertrand corteggiare un infinito numero di donne, spesso diversissime e opposte tra di loro (non può esistere un'ideale di donna in chi ama l'idea di donna): dalla prima che insegue invano fino a Bezières, rendendosi poi conto di un colossale equivoco una volta a colloquio con la cugina di lei, Martine (una giovane Nathalie Baye, già in Effetto Notte - 1973, e che poi sarà musa anche di Godard e Chabrol), all'avvenente Bernadette (Sabine Glaser), impiegata dell'autonoleggio in cui era andato a fare le ricerche per raggiungere la donna precedente; da Hélène (Geneviève Fontanel), proprietaria del negozio di lingerie, davanti alla cui vetrina resta spesso ad osservare i nuovi capi, ma che gli confida di essere attratta solo da ragazzi più giovani, a Fabienne (Valérie Bonnier), la sua prima storia a Montpellier, che si chiude con una frase che la dice lunga sulla filosofia di Bertrand: "tu sei libera, io sono libero, tutti sono liberi"; da Nicole (Roselyne Puyo), la maschera del cinema, sordomuta, ad Uta (Anna Perrier), la bellissima baby-sitter che invita a casa fingendo di avere un bambino che si rivela essere un bambolotto ("il bambino sono io!"), e persino la sconosciuta che ribattezza Aurore, la voce del servizio di sveglia telefonica con cui flirta sistematicamente. Un caso a parte sembra essere Delphine (Nelly Borgeaud), la donna meno adatta a lui e che, forse proprio per questo, lo destabilizza: sposata, è inizialmente un'amante focosa e spiazzante per la sua sorprendente voglia di far l'amore nei luoghi più disparati e "pericolosi", poi si trasforma semplicemente in una donna possessiva e gelosa, che tenta di limitare la libertà di Bertrand in ogni modo, in un'evidente lotta contro i mulini a vento, da cui infatti uscirà sconfitta...
Hélène nel suo negozio di lingerie 
D'altronde il protagonista dichiara "ho sempre amato la  solitudine", ma allo stesso tempo non può fare a meno di guardarle tutte, conscio del potere che hanno su di lui le nuove conquiste ("ma cos'hanno queste donne in più di quelle che conosco? Proprio questo... sono delle sconosciute").
È, però, Geneviève, durante il funerale, a darci la migliore sintesi del pensiero di Bertrand e degli errori delle sue compagne: "Le donne che ha fatto soffrire hanno avuto un solo torto: aspettarsi qualcosa che non era in grado di dare. A quelle che volevano il piacere lui ha dato piacere, e anche la dolcezza. Per me non c'è alcun dubbio che a modo suo le abbia amate, e che aveva ragione ad amarle tutte: nessuna si equivale, ciascuna ha qualcosa che le altre non hanno, qualcosa di unico e di insostituibile".
Prima dell'incidente causato dall'ennesima rincorsa verso due belle gambe, il protagonista incontrerà casualmente a Parigi anche Véra - interpretata da un'ancora molto bella Leslie Caron, omaggio vivente a grandi musical di Vincente Minnelli amati da Truffaut e girati dall'attrice negli anni cinquanta, come Un americano a Parigi (1951) o Gigi (1958) -, probabilmente una delle donne che Bertrand ha amato di più, ma da cui prende le distanze con un eloquente "anch'io penso a te, ma ormai sempre meno. Siamo diventati degli estranei".
Bertrand tra Bernadette e Delphine
(Jules et Jim in Truffaut è sempre dietro l'angolo)
Bertrand, comunque, resta un personaggio profondamente cinico nei confronti dell'amore comunemente inteso: di fronte ad una coppia di sposi che esce da una chiesa, per esempio, esclama "Ecco due che credono a Babbo Natale"; così come reputa il ristorante un luogo perfetto per una nuova relazione, ma non può non notare le coppie che da tempo vivono insieme e che mentre mangiano si annoiano e non si scambiano una parola. Eppure il personaggio di Bertrand, pur se brevemente, si era già visto nel cinema di Truffaut, che lo riprese da La sposa in nero (1968) per metterlo al centro di questo nuovo film: era proprio Charles Denner, infatti, il pittore che confidava alla modella interpretata da Jeanne Moreau di avere una predilezione per gli incontri amorosi fugaci...
Truffaut gioca continuamente con i tempi della narrazione e, nel farlo, si aiuta con l'intenzione di Bertrand di scrivere un libro, quello che ingenuamente intitola Le cavaleur (Il donnaiolo), che sarà poi la stessa Geneviève a cambiare in L'uomo che amava le donne, significativamente titolo del libro e del film che stiamo vedendo, in un costante gioco tra realtà e finzione, leitmotiv della filmografia di François Truffaut. Bellissimo, in questo senso, il dettaglio del vestito rosso di una bambina che Bertrand corregge nel suo dattiloscritto in blu, e che permette al regista francese di raccontarci di nuovo la scena cambiando davvero il colore del vestito in questione.
Nel redigere le sue memorie, Bertrand va a pescare nella memoria la sua infanzia - a interpretare il ruolo da ragazzo è Michel Marti -, il suo difficile rapporto con la madre libertina che sembra non considerarlo, cosicché la storia può saltare avanti e indietro mostrandoci anche delle parti in bianco e nero in cui il protagonista è coinvolto dalla madre nelle sua corrispondenza amorosa che il piccolo Bertrand boicotta; o le prime esperienze sessuali da adolescente, che come spesso accadeva in quegli anni, si svolgono in un bordello.
Sia i contrasti con la madre, sia la sua prima volta con una prostituta, sono evidenti segnali che nel personaggio di Bertrand si riconoscesse lo stesso Truffaut (basta ricordare le simili vicende di Antoine Doinel nell'autobiografico I quattrocento colpi - 1959), con cui il protagonista del film condivide anche altre caratteristiche che non manca di precisare durante la storia: è figlio unico ed è del segno dell'acquario. Allo stesso modo, anche la passione per la redazione del libro (che nella realtà diventa il film) accomuna Bertrand e Truffaut, e viene ben spiegata e sintetizzata dal dottore che visita il protagonista: "Non c'è niente di più bello che veder pubblicato il proprio libro, se non vedere nascere il bambino che si è tenuto per nove mesi in grembo. Ma noi non possiamo farlo".
Bertrand e Vèra (Leslie Caron)
Le insicurezze del neo-scrittore vengono arginate dalla bella e volitiva Geneviève che, di fronte alle sue incertezze e alla sua voglia di modificare il testo ormai ad un passo dalla stampa, coglie una mancanza di autostima su cui sentenzia con un'altra delle tantissime battute rilevanti della pellicola: "Chi non ama se stesso non può amare gli altri". Ed è ancora a lei che spetta la chiosa e la giustificazione morale della condotta di vita del protagonista: "Bertrand ha inseguito un'impossibile felicità nella quantità, nella moltitudine: perché abbiamo bisogno di cercare in tante persone ciò che la nostra educazione pretende di farci trovare in una sola".

Truffaut, con il personaggio di Geneviève, infine, sembra omaggiare anche due dei cineasti che ha più amato nella sua vita: Alfred Hitchcock e Jean Renoir. L'attrice che la interpreta, infatti, la già citata Brigitte Fossey, è la quintessenza della diva che avrebbe adorato il regista inglese, bella, bionda e glaciale, ma allo stesso tempo sorprendentemente passionale e, se questo non bastasse, alla guida indossa i guanti come Tippi Hedren ne Gli uccelli (1963). Il modello hitchockiano viene citato da Truffaut anche nel vezzo di apparire in un cameo nei panni dell'unico uomo che vediamo all'inizio del film, davanti a cui passa il carro funebre di Bertrand.
Bertrand e l'hitchcockiana Geneviève
Per quanto riguarda il legame con Renoir, invece, è sempre Geneviève ad offrire un aggiornamento sull'evoluzione dell'etica delle relazioni tra uomo e donna, precisando che rispetto ad anni prima "stanno cambiando le regole del gioco", un'espressione che non può essere casuale, poiché sia nella sostanza che nella forma cita quello che accadeva nel bel La regola del gioco (1939), una delle commedie più apprezzate di sempre da Truffaut.

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