Una bella
inquadratura del ponte di Brooklyn riflesso in una pozzanghera dà inizio al buon film di Michaël R. Roskam che con essa ha il merito di sintetizzare in
una sola immagine l'ambientazione e la doppiezza che è alla base della storia, tratta da un racconto
di Dennis Lehave (Animal rescue) che firma anche l'ottima
sceneggiatura.
Ad introdurre
il soggetto è la voce narrante di Bob Saginowski, interpretato dal bravissimo
Tom Hardy, che spiega come con il termine drop
bar si intenda un locale che fa da base temporanea per il deposito di soldi
sporchi (la spiegazione è giustificata dal titolo originale, The drop appunto).
Tutto il film ruota proprio intorno al bar gestito da Bob e dal cugino Marvin (James Gandolfini), un tempo proprietario del locale, ma da anni ceduto per debiti di gioco a dei boss "ceceniani", come si ostina a chiamarli lui, nonostante le correzioni del cugino...
Bob è un buono: fa credito ai clienti che non possono permettersi di pagare, non alza mai la voce e si intenerisce quando trova il cucciolo di un pittbull con delle ferite nel secchio della spazzatura della vicina Nadia (Noomi Rapace), che lo aiuta a rimetterlo in sesto e gli dà qualche consiglio su come accudirlo. È chiaro sin da subito l'interesse di Bob per Nadia, ma lui è timido e taciturno, per alcuni versi ricorda il Travis-DeNiro di Taxi Driver (Scorsese 1976), comprese le evidenti difficoltà di relazione con l'altro sesso. A complicare le cose, peraltro, interviene anche l'ex fidanzato di Nadia, Eric Deeds (Matthias Schoenaerts), un personaggio losco, indiziato di omicidio, e che dichiara di essere il vero padrone del cane....
Marvin, al contrario di Bob, esterna molto di più e nel quartiere è conosciuto, benvoluto da tutti e, di fatto, considerato il padrone del bar, che porta ancora il suo nome. Un saggio del suo cinismo lo offre di fronte alla passione con cui Bob si interessa al cane appena trovato, che il cugino liquida con un razionalissimo "un cane è un cane!"
La vita del bar, però, sarà profondamente scossa da una rapina che irriterà i veri padroni del locale e aumenterà l'incrinatura dei rapporti tra Bob e Marvin, attirando allo stesso tempo l'attenzione del poliziotto Evandro Torres (John Ortiz), che vorrà vederci chiaro. Occasione fondamentale sarà la notte del Superbowl, in cui il bar verrà scelto per essere il drop bar della zona...
La vita del bar, però, sarà profondamente scossa da una rapina che irriterà i veri padroni del locale e aumenterà l'incrinatura dei rapporti tra Bob e Marvin, attirando allo stesso tempo l'attenzione del poliziotto Evandro Torres (John Ortiz), che vorrà vederci chiaro. Occasione fondamentale sarà la notte del Superbowl, in cui il bar verrà scelto per essere il drop bar della zona...
Chi è senza colpa è un film cupo: a questo contribuisce oltre alla regia, l'ottima fotografia di Nicolas Karakatsanis, ma non solo, poiché in una pellicola sostanzialmente costituita da sceneggiatura e recitazione, sono basilari le prove degli ottimi due protagonisti, Hardy, ancora una volta molto convincente, e Gandolfini, alla cui memoria è naturalmente dedicato il film nei titoli di coda, ma anche degli altri attori: la svedese Noomi Rapace (già vista soprattutto in Uomini che odiano le donne - Oplev 2009), John Ortiz (che con il compianto Philip Seymour Hoffman fondò a New York la compagnia Off-Broadway LAByrinth Theater Company), Matthias Schoenaerts e persino Ann Dowd (attrice per lo più di serie tv, recentemente apparsa in due buone produzioni come True Detective e The Leftovers), che si fa notare nonostante la piccolissima parte di Dotty, la sorella con cui convive Marvin.
Quest'ultima riflessione dimostra quanto i personaggi siano delineati con attenzione, e nessuno, in effetti, è lasciato in sospeso: se questo è quasi ovvio per Bob e Marvin, molto meno scontato lo è per gli altri. Così Nadia è caratterizzata dalla sua forte diffidenza verso gli uomini, che lascia intuire un passato difficile; l'agente Torres dal suo fervido cattolicesimo che si mescola alla deformazione professionale da indagatore; Deeds è un perfetto piscotico, che può esplodere da un momento all'altro; Dotty non si è mai sposata, vive con il fratello, lo accudisce facendogli quasi da governante, ma in cambio lo costringe a partire insieme per l'Europa, obiettivo per il quale è persino disposta a staccare la spina della macchina che tiene in vita loro padre in ospedale, per lei solo "elettricità" e non vera vita, come invece sostiene Marve.
È chiaro da tutto questo quanto la sceneggiatura faccia da collante essenziale del film e sarebbero tanti i dialoghi da citare, ma forse quello che può maggiormente rappresentare il momento culminante della storia è quello in cui Marvin, a un giorno del Superbowl, dice al cugino che la sera seguente non sarà a lavoro perché continua a sentirsi poco bene. Oltre alla splendida prova attoriale di Hardy e Gandolfini, infatti, in quella sequenza c'è tutta la differenza dei loro personaggi: il sostanziale silenzio di Bob, che prova a convincere il cugino senza troppa convinzione, la rabbia di Marve, che esplode in un giudizio durissimo contro Bob, accusato di aspettare nella vita qualcosa di indefinito, mentre almeno lui un tempo aveva qualcosa di concreto come il bar, anche se perso malamente...
Roskam dirige con una mdp discreta, utilizzando spesso la prospettiva centrale, e talvolta opponendosi ai continui campo e controcampo nei dialoghi, preferendo dei campi più lunghi, di matrice europea, che comprendono entrambi gli attori.
Il regista belga, appena quarantaduenne, è solo al suo secondo lungometraggio, e se consideriamo che il suo primo lavoro (Bullhead, 2011) è stato candidato all'Oscar come miglior film straniero nel 2012, si può decisamente pensare che lo aspetti una radiosa carriera: per ora non possiamo che augurarglielo!
Quest'ultima riflessione dimostra quanto i personaggi siano delineati con attenzione, e nessuno, in effetti, è lasciato in sospeso: se questo è quasi ovvio per Bob e Marvin, molto meno scontato lo è per gli altri. Così Nadia è caratterizzata dalla sua forte diffidenza verso gli uomini, che lascia intuire un passato difficile; l'agente Torres dal suo fervido cattolicesimo che si mescola alla deformazione professionale da indagatore; Deeds è un perfetto piscotico, che può esplodere da un momento all'altro; Dotty non si è mai sposata, vive con il fratello, lo accudisce facendogli quasi da governante, ma in cambio lo costringe a partire insieme per l'Europa, obiettivo per il quale è persino disposta a staccare la spina della macchina che tiene in vita loro padre in ospedale, per lei solo "elettricità" e non vera vita, come invece sostiene Marve.
È chiaro da tutto questo quanto la sceneggiatura faccia da collante essenziale del film e sarebbero tanti i dialoghi da citare, ma forse quello che può maggiormente rappresentare il momento culminante della storia è quello in cui Marvin, a un giorno del Superbowl, dice al cugino che la sera seguente non sarà a lavoro perché continua a sentirsi poco bene. Oltre alla splendida prova attoriale di Hardy e Gandolfini, infatti, in quella sequenza c'è tutta la differenza dei loro personaggi: il sostanziale silenzio di Bob, che prova a convincere il cugino senza troppa convinzione, la rabbia di Marve, che esplode in un giudizio durissimo contro Bob, accusato di aspettare nella vita qualcosa di indefinito, mentre almeno lui un tempo aveva qualcosa di concreto come il bar, anche se perso malamente...
Roskam dirige con una mdp discreta, utilizzando spesso la prospettiva centrale, e talvolta opponendosi ai continui campo e controcampo nei dialoghi, preferendo dei campi più lunghi, di matrice europea, che comprendono entrambi gli attori.
Il regista belga, appena quarantaduenne, è solo al suo secondo lungometraggio, e se consideriamo che il suo primo lavoro (Bullhead, 2011) è stato candidato all'Oscar come miglior film straniero nel 2012, si può decisamente pensare che lo aspetti una radiosa carriera: per ora non possiamo che augurarglielo!
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