mercoledì 21 gennaio 2015

La regola del gioco (Renoir 1939)

Una delle commedie più celebri della storia del cinema (vedi il film), un dramma giocoso o, per dirla come Jean Renoir nei titoli di testa, una "fantasia drammatica". 
Rivoluzionario per la sua tematica libertina, il film sin da subito rivela la sua natura profondamente letteraria, chiudendo i titoli di testa  con una citazione da Il matrimonio di Figaro di Beaumarchais (1784), che la dice lunga sull'intento programmatico del regista: «O cuori sensibili, cuori fedeli, / Che condannate l’amore leggero, / Cessate i vostri lamenti crudeli: / È forse un crimine cambiare? / Se Amore porta le ali, / Non è forse per volteggiare? / Non è forse per volteggiare? / Non è forse per volteggiare?».
Il tema amoroso è inteso come leggerezza e libertà, secondo un ideale che sembra possibile solo tra le classi sociali più elevate: il soggetto, infatti, è incentrato sul finesettimana che un gruppo di aristocratici e altoborghesi passano insieme nel castello del marchese de La Chesnaye, ma mentre le loro relazioni sono consapevolmente aperte, la cosa si complica quando si incrociano con quelle dei servitori, una situazione che degenererà fino a causare un omicidio passionale, ma allo stesso tempo figlio della commedia degli equivoci... Inconvenienti che accadono quando non si rispetta "la regola del gioco"!
Alla fama della pellicola, spesso celebrata come la migliore opera di Jean Renoir, che pure realizzò capolavori assoluti come La grande illusione (1937) La carrozza d'oro (1953), ha contribuito in maniera determinante François Truffaut che ne ha dato un giudizio adorante nel suo libro I film della mia vita (1975):
«La Regola del gioco è il credo dei cinefili, il film dei film, il più odiato alla sua uscita, il più apprezzato in seguito fino a diventare un vero successo commerciale dopo la sua terza ripresa in circuito normale e in versione integrale. All’interno di questo “dramma giocoso”, Renoir agita senza averne l’aria una messe di idee generali, di idee particolari e esprime soprattutto un grande amore per le donne».
Christine La Chesnaye (Nora Gregor) è amata da tutti: dall'aviatore André Jurieux (Roland Toutain) che ha appena compiuto una traversata dell'Atlantico per dedicarle l'impresa; dal marito Robert (Marcel Dalio), che pure non disdegna altre donne; e persino da Octave (Jean Renoir), suo amico da tempo, che la riprende di non gettare le braccia al collo di troppi uomini, perché altrimenti corre il rischio di illuderli.
Anche tra i corteggiamenti ricevuti da Christine uno dei momenti più divertenti è segnato da un clamoroso scontro di due rappresentanti di fasce sociali diverse: da una parte André Jurieux e dall'altra il marchese di Saint Aubin, che dopo aver ricevuto uno schiaffo, prorompe: "sarò costretto domattina all'alba a mandarvi i miei padrini"; la risposta dell'aviatore è fantastica: "all'alba io dormo, e se verranno i vostri padrini dovrò sbatterli fuori della porta", segno che le due classi sociali vivono in due tempi e due mondi totalmente diversi, ancora nell'ancient regime il marchese, ormai nel pieno Novecento André. È evidentemente il canto del cigno di un'epoca, stando anche a quanto dice un passante davanti alla villa: "questo marchese ha classe, una dote sempre più rara".
La sceneggiatura è davvero splendida, e anche Geneviève (Mila Parély) ce ne dà un saggio, con la colta citazione dallo scrittore settecentesco francese Nicolas de Chamfort: "l'amore, nella nostra società, è uno scambio di due fantasie e un contatto di due epidermidi".
È però soprattutto a Octave, non a caso interpretato dallo stesso Jean Renoir, che vengono riservate una serie di battute di gran livello in diverse situazioni: è lui che dice a Robert "in questo mondo c'è una cosa terribile: ognuno ha le sue ragioni"; ad André, sul mal d'amore che passa, "un giorno ti svegli e ti accorgi che la figlia della portinaia ha degli occhi bellissimi e sei guarito"; è lui a commentare che "solo gli inglesi sanno fare un verde così", con una frase che non può non far pensare al celeberrimo padre del regista, il pittore impressionista Pierre-Auguste; ed è ancora lui che prima dice a Christine "siamo in un’epoca in cui tutti mentono: le ricette dei farmacisti, i governi, la radio, il cinema, i giornali... perché noi che siamo semplici pedine non dovremmo farlo?", e poi alla domanda della stessa Christine che lo vede sputare dal ponte, risponde "sputo nell'acqua, è l'unica cosa che so far bene nella vita".
Se la morale è di rottura rispetto a quella dominante negli anni in cui il film fu girato - e basti pensare alla bellissima sequenza in cui Christine e Geneviève invece di discutere per l'amore di Robert, che condividono, parlano dei suoi difetti con piena complicità femminile - altri elementi si calano perfettamente in quella realtà, come nel caso della lunga scena di caccia, in cui Renoir non disdegna dettagli realistici di lepri, fagiani e uccelli colpiti dai fucili e raccolti dai cani, in osservanza ad una sensibilità davvero lontana dai giorni nostri.
Esilarante il personaggio di Marceau (Julien Carette, nella versione italiana doppiato dall'inconfondibile voce di Oreste Lionello) che nella tenuta del marchese "si diletta" a fare il bracconiere, ma che Robert decide di promuovere a domestico tuttofare: è lui a fingere di avere una madre malata per giustificare la sua attività; è lui a causare l'omicidio della persona sbagliata, ma soprattutto è lui insieme alla cameriera Lisette (Paulette Dubost) e al guardacaccia Edouard Schumacher (Gaston Modot), a costituire l'eccezione sociale in quel contesto e che crea continuamente situazioni contrastanti e surreali. Una su tutte quella in cui, dopo aver dichiarato il suo amore per il gentil sesso - "le donne sono così belle e a me piacciono tanto, anche troppo direi" - riceve la confidenza di Robert, che sentenzia sui rapporti di coppia citando, con un pizzico d'invidia, i sultani e i loro harem: "i musulmani sono i soli a dimostrare del buon senso in questo vecchio problema dei rapporti tra l'uomo e la donna", 
Lo stesso Marceau, peraltro, viene accolto all'interno della servitù dal maggiordomo Cornelio, nelle cui vesti si cela Henri Cartier Bresson, allora aiuto regista non accreditato di Renoir.
Difficile oggi comprendere a pieno la portata rivoluzionaria di un film come questo, ma di certo il già citato giudizio di Truffaut e quello che riporto qui di seguito di André Bazin (Jean Renoir, pp. 114-115), furono viatici di un certo prestigio per la riabilitazione de La regola del gioco:
«Né il pubblico, né la maggioranza della critica seppero nel 1939 riconoscere ne La regola del gioco la più ampia e la più lucida espressione di un'epoca condannata. Probabilmente però non fu questa la causa principale del fallimento del film. La storia d'amore valeva quanto un'altra e sarebbe stata sufficiente per decretare il successo dell'impresa se la sceneggiatura avesse rispettato la regola del gioco cinematografico. Renoir aveva voluto realizzare secondo la sua stessa espressione un dramma gaio e questa mescolanza insolita disorientò. D'altra parte, la sua regia prodigiosamente mobile, la sottile ironia delle inquadrature e dei movimenti di macchina, lo stile della fotografia che annunciava in maniera generale la celebre profondità di campo che abbiamo ritrovato in America attraverso Quarto potere (1941) e I migliori anni della nostra vita (1946), sembravano allora delle fantasie buffe ma discutibili».

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