Grande film sull'amicizia e sulla complicità amicale, è certamente una delle migliori commedie italiane successive all'epoca d'oro degli anni cinquanta e sessanta (vedi film), ma dietro la sua realizzazione ci sono due dei massimi esponenti di quel ventennio così prolifico in tutti i sensi per il nostro cinema: Pietro Germi e Mario Monicelli.
Al primo, infatti, si deve il progetto, purtroppo interrotto per la cirrosi epatica che ne causò la morte nel 1974 (paradossalmente nel primo giorno di riprese), e al secondo la solita, impeccabile regia, arrivata nelle sue mani dopo la direzione di capolavori assoluti come I soliti ignoti (1958) e L'armata brancaleone (1966), ad avviso di chi scrive senza dubbio le due commedie più belle e riuscite del cinema italiano.
È per questo che i titoli di testa omaggiano l'autore Pietro Germi, a cui viene riconosciuta la paternità del film, mentre, come sempre, alla fine compare il nome del regista Mario Monicelli.
I protagonisti della storia sono quattro amici fiorentini che si divertono a ridere e scherzare, spesso alle spalle del prossimo, convinti che non si debba rinunciare al lato adolescenziale che c'è ancora in loro: Giorgio Perozzi (Philippe Noiret, doppiato da Renzo Montagnani) è il narratore e il giornalista separato, con un figlio impettito che lo critica per le numerose avventure sentimentali e per aver fatto soffrire la madre con le sue continue infedeltà e le sue numerose bugie; Rambaldo Melandri (Gastone Moschin) è un ingegnere dalla "cotta" facile, che prova a credere ancora all'amore con la A maiuscola vittima com'è dell'irrinunciabile fase dell'innamoramento; Guido Necchi (Duilio Del Prete) è un barista, ma è soprattutto sua moglie che gestisce l'attività mentre lui si ritaglia tantissimi spazi per stare con gli amici; Raffaello Mascetti (Ugo Tognazzi), infine, è un conte decaduto, ma con una morale da ancient regime, che i suoi amici sono costretti ad aggirare per aiutarlo a sopravvivere senza incorrere nei suoi rifiuti.
Ai quattro personaggi principali, inoltre, si aggiunge un altrettanto importante Alfeo Sassaroli (Adolfo Celi), il primario della clinica di Pescia dove finiscono dopo un incidente durante una delle solite "zingarate" e che dimostra non solo di potergli tenere testa, ma anche di avere lo stesso senso dell'umorismo e del divertimento (per mettere in atto alcuni degli scherzi organizzati rimanda persino le operazioni chirurgiche già fissate!). Un gruppo d'attori perfetto, forse eccezion fatta per Duilio Del Prete, che infatti dal secondo episodio verrà sostituito da Renzo Montagnani... e pensare che lo stesso Montagnani avrebbe dovuto interpretare Perozzi, ma dovette rinunciare per girare film erotici con cui pagare le cure del figlio malato, limitandosi a doppiare il personaggio; che Mascetti fu proposto prima a Marcello Mastroianni e poi a Raimondo Vianello, che rifiutarono, il primo perché deluso dalla sua recente esperienza in un film con troppi personaggi (La grande abbuffata - Ferreri 1973), il secondo perché si sentiva escluso dal mondo del cinema.
Sarebbe lunghissimo l'elenco delle strepitose burle e delle sequenze comiche ideate dai fantastici sceneggiatori che affiancarono Pietro Germi anche nell'ideazione del soggetto, Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Tullio Pinelli, ma non si possono non citare gli schiaffi ai viaggiatori con i volti fuori dai finestrini con il treno in corsa, dopo i quali Melandri pronuncia una battuta epocale: "ragazzi, come si sta bene tra noi, tra uomini! Ma perché non siamo nati tutti finocchi?"; Sassaroli che "cede" volentieri la moglie Donatella (Olga Karlatos) all'innamoratissimo Melandri, che deve accettare l'intero pacchetto che prevede figlie, governante tedesca in divisa, Birillo (il bel cane San Bernardo con cui lo vediamo passeggiare all'inizio del film) e conseguenti spese; la festa aristocratica in cui si presentano pur se non invitati (il momento del mitico "cos'è il genio? È fantasia, intuizione, decisione e velocità d'esecuzione"); il lungo scherzo a Righi (Bernard Blier), a cui fanno credere di essere una banda criminale di "marsigliesi"; e tante altre ancora.
La portata sociale di un film come questo è data anche dai molteplici elementi che sono entrati stabilmente nell'immaginario collettivo italiano, fino a generare un neologismo ancora oggi in voga. Il riferimento è all'indimenticabile "supercàzzora" - questo il termine corretto della sceneggiatura, anche se oggi viene quasi sempre pronunciato con la elle -, una frase priva di senso logico che, però, dato l'atteggiamento sicuro e l'apparente eleganza con cui viene espressa, inganna l'interlocutore che alla fine soccombe nel confronto pur avendo ragione. Il maestro di questi geniali nonsense è proprio il conte Mascetti, cosicché la supercazzora risulta una sorta di metafora dello stesso personaggio interpretato da Ugo Tognazzi: l'apoteosi della forma che vince sulla sostanza, così come il conte si ostina ad apparire come un nobile, nonostante viva in un scantinato, privo di ogni cosa, con moglie e figlia. La prima supercazzora è quella con cui Mascetti ipnotizza un vigile che vuole fare una multa all'auto degli amici (vedi):
« Mascetti: Tarapìa tapiòco! Prematurata la supercazzora, o scherziamo?
Vigile: Prego?
Mascetti: No, mi permetta. No, io... scusi, noi siamo in quattro. Come se fosse antani anche per lei soltanto in due, oppure in quattro anche scribài con cofandina? Come antifurto, per esempio.
Vigile: Ma che antifurto, mi faccia il piacere! Questi signori qui stavano sonando loro. 'Un s'intrometta!
Mascetti: No, aspetti, mi porga l'indice; ecco lo alzi così... guardi, guardi, guardi. Lo vede il dito? Lo vede che stuzzica? Che prematura anche? Ma allora io le potrei dire, anche con il rispetto per l'autorità, che anche soltanto le due cose come vicesindaco, capisce?
Vigile: Vicesindaco? Basta 'osì, mi seguano al commissariato, prego!
Perozzi: No, no, no, attenzione! Noo! Pàstene soppaltate secondo l'articolo 12, abbia pazienza, sennò posterdati, per due, anche un pochino antani in prefettura...
Mascetti: ...senza contare che la supercazzola prematurata ha perso i contatti col tarapìa tapiòco.
Perozzi: ...dopo... »
La supercazzola o supercazzora, comunque la si voglia chiamare, è ancora oggi usata per antonomasia come sinonimo di linguaggio ingannevole che fa ricorso a parole altisonanti ma fini a se stesse, in una tradizione linguistica che va da Boccaccio a Rabelais e arriva fino ai Promessi sposi manzoniani con il latinorum grazie al quale don Abbondio riesce a convincere Renzo a rimandare il matrimonio con Lucia. Eppure leggenda vuole che ad ispirare gli sceneggiatori sarebbe stato Marcello Casco, scrittore e cabarettista che sembra usasse lunghe perifrasi prive di senso per interloquire con rappresentanti del potere costituito (non a caso nel film oltre al vigile, più avanti la supercazzora verrà usata con una suora e con un sacerdote).
Tra i tanti rimandi di un film che ha fatto epoca, basti pensare alla stessa moglie di Mascetti, a cui presta il volto Milena Vukotic, che sopporta la vita difficilissima a cui l'ha costretta il marito dilapidando il suo patrimonio, e che esplode in una furia suicida e omicida quando scopre di essere stata anche sistematicamente tradita con la giovane Titti (Silvia Dionisio): il personaggio sembra, infatti, praticamente sovrapponibile a quello che Liù Bosisio e tante altre volte proprio la stessa Vukotic impersoneranno nella saga di Fantozzi (Salce 1975 e sequel) interpretando la moglie di Ugo, Pina, con una figlia non certo di bell'aspetto, come quella di Mascetti, pur se nei film con Paolo Villaggio anche lei, la celebre Mariangela, assumerà un rilievo maggiore all'interno della storia.
Ma si potrebbe andare avanti per molto, citando per esempio un'altra esilarante sequenza, quella della cena con tutti i protagonisti a casa di Melandri e dell'ex moglie del dottor Sassaroli, a cui il personaggio di Gastone Moschin si rivolge apostrofandola con un dolce "Cippa Lippa", espressione per anni usata anche in tv dal popolare trio della Gialappa's Band.
Amici miei, che venne seguito da altri due episodi, diretti rispettivamente dallo stesso Monicelli (Amici miei atto II - 1982) e da Nanni Loy (Amici miei atto III - 1985), però, è anche un film malinconico, come sottolineano spesso le musiche di Carlo Rustichelli che fanno da contrappunto ai commenti della voce off di Perozzi e la fotografia di Luigi Kuveiller che immortala una Firenze autunnale, grigia e quasi spettrale. A confermare questa seconda natura del film, inoltre, intervengono anche le scene che descrivono la povertà del conte Mascetti, ma anche il già evidenziato rapporto contrastato tra Perozzi e il figlio Luciano, sul quale il padre prima sentenzia "quando penso alla carne della mia carne, chissà perché, divento subito vegetariano" e, più avanti, con molta meno comicità "e io restai a chiedermi se l'imbecille ero io che la vita la pigliavo tutta come un gioco, o lui che la prendeva come una condanna ai lavori forzati".
Nulla verrà mai preso sul serio, nemmeno la morte... un atteggiamento con cui evidentemente Pietro Germi (ma anche Monicelli) doveva essere pienamente d'accordo.
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