Tim Burton alle prese con una storia realmente accaduta: sembra quanto di più lontano possibile dall'immaginario del regista di Burbank, ma va riconosciuto che la storia di Big Eyes è davvero lontana dalla verosimiglianza comunemente intesa. Solo in un altro caso il cineasta si era misurato con una storia reale, quando realizzò Ed Wood (1994), la biografia di uno dei registi più bistrattati della storia del cinema.
La vicenda narrata questa volta, invece, non ha a che fare col cinema, ma con l'arte, quella pop di Walter Keane (1915-2000), divenuto famoso con i "suoi" bambini dagli occhi grandi che tra gli anni '50 e '60 spopolarono, facendo meritare al suo sedicente autore persino l'attenzione di Andy Warhol che con uno dei suoi paradossi ammise “Beh, se piace tanto alla gente vuol dire che un valore artistico ci dev'essere [...] se piace non può essere brutto”. L'enorme successo rese le opere di Keane accessibili solo ai più ricchi e arrivarono ad acquistare e a commissionare le sue tele anche personaggi di Hollywood come Kim Novak, Joan Crawford, Nathalie Wood, Dean Martin e Jerry Lewis, mentre alle fasce sociali più basse non restavano che poster e cartoline, per i tempi un'innovativa strategia di marketing che arricchì ancora di più Keane. In realtà, però, quell'impero economico posavo le fondamenta su dei piedi d'argilla: le opere infatti venivano realizzate dalla moglie di Walter, Margareth, costretta dal marito anche a lavorare 16 ore al giorno, e che, pur se in ritardo, si ribellò e dopo il divorzio, nel 1970, riuscì a vincere la causa, che si chiuse con un'incredibile prova di pittura in tribunale, che sancì l'incapacità artistica di Walter, che millantò un dolore al braccio, dando ragione alla donna che realizzò uno dei celebri bambini dagli occhi grandi.
Il film invece si basa su due solide fondamenta: gli interpreti. Amy Adams nella parte di Margareth e Cristoph Waltz in quella di Walter, entrambi bravissimi, pur se il secondo ormai da anni, ogni volta che viene inquadrato da una mdp, fa qualcosa per ricordarci di essere uno dei migliori attori al mondo. La sua recitazione sopra la righe di un personaggio così controverso è fantastica, specie quando lo vediamo esplodere in una sera di gala, durante la quale viene bistrattato il dipinto Tomorrow forever, realizzato per il padiglione dell'educazione per l'esposizione universale di New York del 1964 ("una tela da cinerama", come la definisce la moglie). Walter non solo aggredisce verbalmente il suo detrattore, il critico John Canaday (Terence Stamp), urlandogli "perché uno diventa critico? Perché non è in grado di creare nulla", ma in preda alla follia lancia fiammiferi accesi su Margareth e sua figlia Jane e, come un novello Jack Torrance-Nicholson, le spia ghignante dalla serratura spaventandole a morte.
Purtroppo, però, l'interpretazione dei due ottimi attori non è sostenuta né dalla sceneggiatura, né tantomeno dalla regia, che si limita allo stretto indispensabile, senza andare oltre, come invece ci aspetteremmo da quello che fino a qualche tempo fa era uno dei registi più visionari di Hollywood!
Non ricordiamo molte battute che lasciano il segno e si fa fatica a segnalarne alcune: la voce narrante ci racconta il passato di Margareth, prima dell'incontro con Walter, precisando che aveva lasciato un precedente marito "molto prima che lasciare i mariti diventasse di moda", e la stessa pittrice, mentre dipinge come ritrattista per turisti in strada, davanti alle avance di Keane rivela che il suo primo marito "il signor Ulbrich non rientra nel quadro"; e ancora più avanti il critico John Canaday, che osteggerà la pittura dei bambini dai grandi occhi, dichiara che "la società ha bisogno di critici che la proteggano da simili atrocità". Resta forse più in mente la frase di due visitatori in una delle esposizioni organizzate da Keane, che sintetizzano la sua capacità di arricchimento seriale: "vende i quadri, poi vende le foto dei quadri, poi i poster delle foto dei quadri".
Il dipinto Tomorrow Forever per l'esposizione del 1964 |
Se la sceneggiatura non brilla, come detto, non lo fa neanche la regia, che si segnala praticamente solo in un frangente, quello in cui Margareth si ritrova al supermercato - dove peraltro acquista una scatola di zuppa Campbell, omaggio alla "vera" pop art, quella di Warhol - e inizia a vedere le altre persone con gli occhi enormi come i personaggi dei suoi dipinti, in un'ossessione distorta estremamente burtoniana.
Un ultimo accenno ai riferimenti meta-artistici nella produzione di Margareth, che vuole affrancarsi dai "trovatelli dai grandi occhi": la pittrice si rifarà prima a Modigliani, con le tipiche figure femminile dai lunghi volti, ma qua e là, nella sua casa a Honolulu, vediamo anche la versione pop di dipinti che ci ricordano quelli naif di Jacques Rousseau il Doganiere o quelli fauves di Henri Matisse.
Detto tutto questo, Big Eyes resta un film senza acuti, un film di mestiere realizzato da un regista che per troppo tempo ci ha abituato a stravolgere questo mestiere e da cui non possiamo che aspettarci molto di più...
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