L'uscita dalle officine Lumière |
Oggi, Festa dei lavoratori, come per altre occasioni festive, Il cinema secondo Begood ha deciso di regalare ai suoi lettori un approfondimento sull'argomento che faccia riflettere e perché no, dopo le più tradizionali gite per parchi soleggiati, passare una serata a guardare, magari in gruppo, un film che tratti di lavoro... quello che nobilita l'uomo, no?
Cronologicamente non si può non partire dal pioneristico L'Uscita dalle officine Lumière (Lumière 1895), il primo dei celeberrimi dieci filmati che vennero proiettati da Auguste e Louis Lumière il 28 dicembre 1895 nel Salon indien du Grand Café di Boulevard des Capucines a Parigi e che, convenzionalmente, segnano l'inizio della storia della settima arte.
Charlie Chaplin in Tempi moderni |
Se il primo film visto da un pubblico, però, si limitava a far vedere degli operai uscire da una fabbrica, ben più "significativo" è Sciopero! (Ėjzenštejn 1925), uno dei capolavori del più grande regista della Russia post-rivoluzionaria che, narrando di un operaio suicida perché ingiustamente accusato di furto dai propri padroni negli anni appena precedenti la rivoluzione d'ottobre, affrontava, attraverso un montaggio passato alla storia, il tema di uno sciopero fondato sulla solidarietà degli altri operai, messi sotto scacco dalla polizia e dalla fame.
Lamberto Maggiorani ed Enzo Staiola in Ladri di biciclette |
Un capitolo a parte meriterebbe il neorealismo italiano che, alle difficoltà lavorative della popolazione che affrontò la Seconda guerra mondiale, consegnò alla storia uno dei più grandi capolavori di quegli anni, il bellissimo Ladri di biciclette (De Sica 1948), trasformando un padre di famiglia, messo con le spalle al muro dal semplice furto di una bicicletta, che però per lui era il mezzo di sostentamento, a diventare egli stesso ladro, ma senza la capacità e l'attenzione di chi era più avvezzo a quel sistema di vita. Sulla base del romanzo di Luigi Bartolini, Vittorio De Sica e lo straordinario sceneggiatore Cesare Zavattini, crearono così uno dei manifesti di quel movimento cinematografico, arrivando persino a vincere l'Oscar per il miglior film straniero nel 1949.
Pietro Germi ne Il ferroviere |
Dello stesso anno è Riso amaro (De Santis 1949), celebre dramma a cui fanno da sfondo le risaie e soprattutto le mondine, guidate da una splendida e giovanissima Silvana Mangano, che lavorano tra clandestinità e contratti di lavoro col padrone.
A qualche tempo dopo risale l'altrettanto importante Il ferroviere (Germi 1956), in cui lo stesso regista decise di interpretare il protagonista Andrea, un uomo taciturno che durante uno dei lunghi turni di lavoro alla guida del treno, ha la sfortuna di investire un suicida sui binari del treno. La vicenda racconta, negli anni del boom economico italiano, la condizione sociale di chi a quella ricchezza non poteva prendere parte, ma che lavorava per costituire quella altrui. Le difficoltà di quegli anni, la distanza dei sindacati, parolai e lontani dalla tragedia del singolo, lasciato a se stesso e che, in aperta polemica con queste manovre politiche, rifiuta di partecipare ad uno sciopero ottenendo, come se non bastasse, anche la disapprovazione degli amici o presunti tali.
Mastroianni e Blier ne I compagni |
Merita uno spazio anche la cultura contadina e la durezza di quel lavoro, nel cinema italiano resa in maniera particolarmente straordinaria in film come Novecento (Bertolucci 1976) e L'albero degli zoccoli (Olmi 1978), nei quali tutto è cadenzato attraverso il lavoro nei campi e la sua stagionalità (in entrambi, ad esempio, compare una sequenza sull'uccisione del maiale).
Lo stesso Ermanno Olmi, peraltro, anni prima si era soffermato sull'ossessione della ricerca del posto fisso come mezzo per affrancarsi dalla vita contadina ne Il posto (1961), un film che, seppur minore rispetto ai suoi capolavori, visto oggi, conserva intatto il grande valore di testimonianza storica e sociale.
Il lavoro in Novecento e ne L'albero degli zoccoli |
Negli ultimi decenni cinema e lavoro sono un binomio che ha costituito quasi l'intera produzione di un regista come l'inglese Ken Loach, che soprattutto con Riff Raff (1991; con il pessimo sottotitolo italiano Meglio perderli che trovarli), Piovono pietre (1993), Ladybird, ladybird (1994), My name is Joe (1998) si è occupato come nessun altro della restaurazione economica britannica e i profondi contrasti tra mondo operaio e Margareth Tatcher, raccontando il mondo del proletariato, della disoccupazione e delle conseguenti difficoltà sociali.
Il cinema di Loach, peraltro, ha generato un'influenza sui cineasti inglesi che ha condotto alla produzione di film come Segreti e bugie (Leigh 1996), che restano ancorati al mondo del proletariato, e persino a commedie come Full monty (Cattaneo 1997, ancora una volta con un pessimo sottotitolo italiano Squattrinati organizzati), che partendo da quel contesto sociale e, persino con gli attori-feticcio di Loach (es. Robert Carlisle), hanno saputo offrire una versione più leggera e con una via d'uscita pur sempre lasciata all'iniziativa dei singoli.
Robert Carlisle in Riff Raff |
Tra i film più recenti, infine, si può chiudere questa carrellata, con Il capitale umano (Virzì 2014), in cui il mondo del lavoro è quello del "non lavoro", dove i sogni dell'alta finanza si abbattono su una media borghesia che agogna di salire una scala sociale dalla quale, una volta salito qualche gradino, si può fare solo un rumore maggiore cadendo...
Buon 1° maggio a tutti!
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