giovedì 8 maggio 2014

Locke (Knight 2013)

Un film-esperimento per il secondo progetto da regista (dopo Redemption, 2013) di Steven Knight, certamente più conosciuto finora per i suoi lavori di sceneggiatura e soprattutto per Piccoli affari sporchi (Frears 2002) e per La promessa dell'assassino (Cronenberg 2007).
La sperimentazione consiste nell'incentrare l'intera vicenda su un solo attore, costantemente inquadrato all'interno della sua auto per tutta la durata del film, mentre guida in autostrada nei dintorni di Londra. All'unità di luogo e di azione si accompagna anche quella di tempo, che coincide esattamente con le circa due ore di viaggio, in una rarissima identità cronologica tra realtà e finzione. 
Tutte queste caratteristiche, evidentemente, ne fanno un film dominato dalla scrittura e davvero poco dagli aspetti registici, in piena consonanza con la formazione del suo autore.
Il motivo del viaggio di Ivan (Tom Hardy) è il senso di responsabilità nei confronti di Bethan, una sua ex assistente rimasta incinta dopo una loro avventura occasionale, che ora sta per partorire in ospedale e alla quale egli ha promesso di starle vicino al momento della nascita del bambino.
Naturalmente la situazione è ben più complicata, poiché Ivan è sposato con Kathrina, che fino ad ora non sospettava nulla, e ha due figli, Sean e Eddie, che lo aspettano per cenare a base di birra e salsicce e per vedere in tv la partita di calcio della loro squadra del cuore. Come se questo non bastasse, Ivan è anche l'ingegnere responsabile di un enorme cantiere, che al mattino seguente vivrà un evento fondamentale con l'arrivo di 210 camion che trasportano 355 tonnellate di calcestruzzo che serviranno per gettare le fondamenta di un edificio di ben 55 piani. Tutti i numeri e i dettagli ci vengono dati dallo stesso Ivan, un uomo di una precisione meticolosa e maniacale, da cui nessuno si aspetterebbe un abbandono improvviso, né del lavoro né tantomeno della famiglia.
Lo spettatore viaggia al fianco di Ivan e lo segue nel continuo avvicendarsi delle telefonate che si susseguono senza soluzione di continuità, alternando problemi, stati d'animo, incoraggiamenti, reprimende e tanto altro, nel corso delle due ore di viaggio che di fatto cambiano la sua vita.
Il suo superiore Garret (salvato nella rubrica come "Bastard") è sconvolto e, abituato alla sua grande affidabilità, non crede a quello che sta succedendo, ma non può far nulla per scongiurare il suo licenziamento in tronco, che arriva puntuale quando i capi di Chicago vengono a sapere la situazione. Ivan, però, non fa una piega, sembra considerare sempre tutto, il suo senso del dovere è più forte di tutto e ne determina ogni comportamento, anche perché alla base della scelta di assistere Bethan c'è una forte spinta psicologica e autobiografica, di forte rottura nei confronti del proprio padre, ormai morto, ma che lo abbandonò appena nato: in diversi momenti del viaggio, in quei pochi casi in cui il telefono non lo tiene impegnato, Ivan parla idealmente e un po' troppo shakespearianamente col padre, guardando nello specchietto come se fosse seduto nei sedili posteriori, insultandolo con la volontà di dimostrargli quanto sia diverso da lui ("ho ripulito questo nome"). È questo quello che conta di più, la moglie dovrà capire che in realtà lui la ama ancora e che quell'avventura è stata l'unica in quindici anni di matrimonio, così come la donna che sta per partorire dovrà farsi una ragione che la loro è stata solo un'avventura e Donal, l'operaio a cui ha deciso di affidare il compito di seguire la colata di calcestruzzo, dovrà portare a termine il lavoro sotto le sue indicazioni...
Tutti gli imperativi categorici di Ivan, che in quanto tali non ammetterebbero deroghe, si scontreranno con la realtà: la rabbia della moglie tradita, le paure dell'operaio che non si sente in grado di reggere la responsabilità, l'incredulità del suo superiore di fronte alla sua rigidità ("perché non ti sei dato malato?" arriva a chiedergli, sentendosi rispondere in maniera glaciale "perché non sono malato").

L'esperimento di Steven Knight, in buona sostanza, riesce solo in parte: il film non appassiona come vorrebbe il suo regista (ma forse nella versione italiana la colpa è anche del doppiaggio delle tante voci telefoniche non sempre all'altezza); Tom Hardy è bravo, ma reggere la scena per due ore da solo sarebbe veramente troppo per chiunque; la razionalità di Ivan Locke è piuttosto banalmente connessa a quella dell'omonimo filosofo empirista inglese del Seicento John Locke; la sceneggiatura è buona ma non così tanto da far dimenticare la totale assenza di regia; i mezzi del cinema sono pressoché azzerati e lo stesso risultato si sarebbe ottenuto se il progetto fosse stato sviluppato come un radiodramma...
Il film è stato osannato al Festival di Venezia, dove è stato presentato fuori concorso, ma lì, va ricordato, l'ultima edizione è stata vinta da Sacro G.R.A., segno che la giuria aveva una passione smodata per le strade ad alto scorrimento piuttosto che per il cinema e, se la sfida è questa, la storia narrata lungo l'M1 tra Birmingham e Londra stravince contro il nostrano Raccordo Anulare!

1 commento:

  1. Perfettamente d'accordo: pessimo doppiaggio della voci al telefono, peccato!

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