giovedì 22 maggio 2014

Il nastro bianco (Haneke 2009)


Con un tagliente e implacabile bianco e nero, Michael Haneke racconta la storia di un villaggio della Germania del nord negli anni immediatamente precedenti la Prima guerra mondiale.
La piccola comunità rurale ha i suoi punti di riferimento sociali: il medico, vedovo e padre di due figli (Rudolph e Anne), che ha una relazione con la levatrice Clara, madre di Karl, un bambino con problemi; il pastore protestante, sposato e con ben sette figli; il barone, vero e proprio feudatario, con la moglie e il figlio Sigmund (Siggy); la nuova bambinaia dei baroni, Eva, di cui il maestro si innamora a prima vista. È proprio la voce off di quest'ultimo che ci narra le vicende da un punto temporale privilegiato, il futuro, quando la distanza dagli avvenimenti permette una maggiore obiettività e un'amara riflessione: i successivi passi della Germania (Repubblica di Weimar e Nazismo) avevano dei prodromi allarmistici sin dai primissimi anni del secolo.

Il nastro bianco del titolo si riferisce alla striscia di stoffa, stretta intorno al braccio come simbolo di purezza, che secondo il rigido sistema educativo del pastore protestante i figli disobbedienti devono indossare come monito, in uno schema mentale che rimarrà inalterato pochi decenni dopo, quando il segno distintivo verrà imposto in ben altri contesti.
La sequenza in questione è una delle più significative della pellicola, con il pastore che ammonisce i figli, colpevoli di un ritardo a cena, con un'intensa reprimenda in cui il regista riesce a coinvolgere lo spettatore in maniera ineguagliabile. Finito il discorso, il genitore manda l'intera famiglia a letto senza cena, accrescendo i sensi di colpa dei ragazzi e, soprattutto, l'agonia di una punizione procrastinata. Le frustate promesse verranno inflitte a Herna e Martin solo il giorno dopo e Haneke riprende tutto lasciando la mdp fuori della porta e riservando esclusivamente al sonoro la narrazione del momento, secondo uno schema tipico di molti horror ("è quello che non si vede che fa davvero paura", dice Martin Scorsese nel suo splendido Viaggio nel cinema americano parlando di un maestro del genere come Jacques Tourneur).
È ancora più significativo, peraltro, che lo stesso Martin, prima delle frustate del padre, sfidi la sorte camminando su un ponte e, fermato dal maestro, dica "ho voluto dare a Dio la possibilità di uccidermi", un chiaro segnale di come l'alto grado di disciplina potesse creare dei futuri uomini pericolosi, impassibili di fronte a tutto.
Non resta impassibile, invece, Max Felder, il figlio della contadina rimasta vittima di un incidente, che per ripicca devasta il raccolto in un campo di cavoli del barone, per poi essere ripreso dal padre, timoroso di possibili ripercussioni sulla famiglia, dato che l'uomo più potente del villaggio è anche in grado di prendere la parola durante la messa domenicale per accusarlo e per chiedere agli altri presenti di aiutarlo a scovare i colpevoli di ben altre efferatezze.
La comunità, infatti, è stata sconvolta dalle torture subite da Siggy, il figlio del barone, ritrovato legato in una segheria dopo essere stato frustato, evento a cui il barone connette anche l'episodio con cui il film si è aperto, il ferimento intenzionale del dottore, che cade da cavallo per un filo di metallo appositamente teso in strada al suo passaggio. Verrà preso di mira anche lo sfortunato figlio di Clara, reso quasi cieco dalle torture di qualcuno.
Il maestro forse arriverà alla soluzione dell'enigma, ma la supposizione rimarrà tale, poiché nel frattempo lo scoppio della guerra mondiale cambierà tutto. Haneke ci lascia con questo enorme e atroce dubbio: allo spettatore non resta che scegliere tra le diverse possibilità, ma la sensazione è che la peggiore sia quella giusta...

Il bellissimo film di Haneke, cupo e giustamente privo di speranza, poiché racconta l'infanzia e la crescita della generazione che per alcuni anni ha tolto la speranza all'intera Europa, ha vinto la Palma d'oro a Cannes, il Golden Globe per il miglior film straniero, ma non l'Oscar per la stessa categoria, quell'anno vinto da Il segreto dei suoi occhi dell'argentino Juan José Campanella.
Nessuno nel villaggio è completamente puro e il "nastro bianco" del titolo, forse, andrebbe indossato da tutti. Dal barone, spietato e anaffettivo, che vede tutti come sue proprietà e che licenzia la povera Eva, dopo che Siggy è stato malmenato. Dalla baronessa che parte per l'Italia, da dove però torna dopo essersi innamorata di un altro uomo, anteponendo questo all'amore per il figlio. Dall'intendente, un personaggio servile nei confronti del barone, i cui figli, anch'essi da condannare, sono prepotenti e inetti. Dal medico, che nella sequenza verbalmente più dura della pellicola, offende Clara, colpita nella maniera più turpe nella sua femminilità ("mi disgusti", "hai l'alito cattivo", "mi viene voglia di vomitare", "si diventa sentimentali quando si soffre", "perché non muori?", "mi sei di peso", sono alcune delle frasi che le rivolge). La donna, però, si difende nell'unico modo in cui ai nostri occhi diviene altrettanto colpevole, conscia di quanto il suo amante abusi della figlia, senza che lei abbia mai denunciato la cosa. Certamente dal pastore protestante stesso, la cui fermezza, propria solo di chi è convinto di avere Dio dalla propria parte, in un assurdo delirio di onnipotenza, lo porta a legare i polsi del figlio durante la notte, per evitare che si masturbi; a riprendere duramente la figlia in classe per un nonnulla fino a causarne lo svenimento, generando così la sua reazione rabbiosa e vendicativa, con l'uccisione dell'uccellino che il padre teneva con amore (?) in gabbia nello studio. È indicativo che la fanciulla torturi il volatile crocifiggendolo su delle forbici accrescendo il valore simbolico della sua vendetta, capace di far ricorso agli insegnamenti religiosi del padre. Quest'uomo, di fatto, dimostrerà un solo momento di affetto, quando, in una delle sequenze più serene del film, autorizza il figlio più piccolo a tenere un uccellino malato per curarlo e accudirlo.
L'inquadratura di Haneke e una donna di spalle di Hammershøi
La regia di Haneke, che talvolta si sofferma sullo splendido paesaggio attorno al villaggio, bellissimo soprattutto quando è innevato, si sofferma ad analizzare ogni dettaglio, in una sorta di visio perspicua cinematografica, che tanto deve anche alla pittura. Se guardando il film, infatti, l'amore per la storia del cinema ci fa pensare alle inquadrature taglienti di Dreyer o a quella teatralmente messe in scena da Ingmar Bergman o da Luchino Visconti (Siggy sul lago insieme ai figli dell'intendente sono ripresi in una composizione che potrebbe essere nei film di questi registi) o alle vicende tedesche narrate dalla saga di Heimat, la storia dell'arte ci offre dei puntuali rimandi... e così si ha la netta percezione che Haneke abbia ben presente i dipinti di Vilhelm Hammershøi (1864-1916) che, confrontati con alcune inquadrature del film, sembrano rappresentare qualcosa di più di un'evocazione. Valga come esempio per tutti la già citata scena del pastore che riprende la figlia nella sua classe, con la ragazza di spalle, proprio come tante donne dipinte dal pittore danese.

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