La pellicola del danese Jonas Poher Rasmussen è un'esperienza emozionante ed empatica, in cui disperazione e voglia di vivere liberi, nonostante le avversità, si contrappongono virtuosamente. Un documentario che alterna il cinema d'animazione a filmati di repertorio, un esperimento indubbiamente interessante dal punto di vista formale, ma che poi, grazie al suo contenuto, andrebbe portato nelle scuole e utilizzato come occasione di riflessione su tematiche rilevanti come la guerra e il diritto all'autodeterminazione. Il tutto riconosciuto dalle candidature agli Oscar 2022 come miglior film d'animazione, miglior documentario e miglior film internazionale, oltre alla vittoria del premio della giuria al Sundance film festival (trailer).
Attraverso la storia di Amin Nawabi il regista narra la guerra civile in Afghanistan tra il 1989 ed il 1992, e a questo affianca la microstoria del protagonista, allora bambino, tra peripezie che lo portano in diversi paesi, da rifugiato, lontano dalla famiglia, prendendo nel tempo sempre più coscienza, inoltre, della propria omosessualità, una questione che in quel contesto era ancora più difficile che altrove.
Eppure Amin, durante la lunga intervista che costituisce il film (e che viene sempre introdotta dalla bella immagine del suo volto su uno sfondo di tessuto colorato che rimanda subito al Medio Oriente), ci racconta che, com'è ovvio che sia, sin da piccolo sapeva chi lo attraesse, fantasticando su sex symbol che campeggiavano nella sua stanza sui poster, come Jean-Claude Van Damme o Chuck Norris, e di come trovasse naturale indossare i vestiti delle sorelle. Tra i poster, peraltro, salta all'occhio, per noi spettatori italiani, la presenza di Michel Laudrup con la maglia della Juventus stranamente griffato L'Unità, decisamente improbabile, piuttosto che di un giornale sportivo.
La parte animata ci mostra una Kabul colorata, in cui Amin e il fratello maggiore fanno volare aquiloni, giocano a pallavolo, pressoché ignari dei problemi della guerra che di lì a poco diventano fin troppo evidenti, anche perché il primogenito dovrà nascondersi e fuggire per evitare di essere arruolato. Inserti da reportage recuperano immagini d'epoca con supermercati dagli scaffali vuoti, conseguenza della svalutazione del rublo, che si alternano alle parole del presidente afghano Najibullah, dipendente dagli aiuti di un'Unione Sovietica ormai alla fine della sua storia, e alle scorribande dei talebani armati e finanziati dagli USA contro i civili considerati "infedeli".
In tutto questo la fuga della famiglia di Amin, l'approdo a Mosca, i tentativi di andare altrove: un'infanzia e una prima adolescenza tra paura, viaggi di fortuna in nave, in cui l'uomo di oggi ricorda pensieri pieni di ansia e preoccupazione del bambino di allora, come "chi salvo prima se la barca affonda?", e l'arrivo della polizia, delineato come un vero e proprio incubo.
L'animazione in questo caso diventa puro espressionismo e, mentre le parole di Amin descrivono i fatti, vediamo poliziotti con i passamontagna i cui volti ricordano L'urlo di Munch o la sua derivante cinematografica, la maschera di Scream. Lo stesso avviene quando il vento e gli alberi descrivono la tempesta emozionale dei profughi in viaggio, momenti in cui la legge della sopravvivenza toglie l'umanità ai più rischiando il sacrificio dei più anziani o dei claudicanti, colpevoli di rallentare il gruppo.
Un'altra sequenza che merita di essere ricordata è quella dell'inaugurazione del primo McDonald's di Mosca, il 31 gennaio 1990, evento storico di cui infatti Rasmussen inserisce anche i video di allora: i due fratelli vengono attirati dalla possibilità di mangiare un Big Mac, ma vengono arrestati. Quello che succede dopo è da brividi: dopo essere stati picchiati, nel camion si ritrovano con una ragazza e vengono liberati perché i poliziotti hanno intenzione di violentarla.
La scena è terribile, non vediamo nulla se non il veicolo della polizia in lontananza in cui entrano i vari agenti, parcheggiato dietro l'angolo rispetto a dove si sta svolgendo la festa per l'inaugurazione del locale. Il contrasto è totale e nessuno può accorgersi di nulla: la narrazione che ne fa Amin è devastante, ricorda ancora l'impotenza e la paura che lo paralizzarono, lui e il fratello sapevano cosa stava per succedere ma non poterono neanche pensare di muovere un dito.
Bella la colonna sonora e anche il modo di inserirla intradiegeticamente nella vicenda, con Amin che viene spesso disegnato con le cuffie di un walkman nelle orecchie. È così che ascoltiamo brani dell'epoca come Joyride dei Roxette o Wheel of fortune degli Ace of Base, ma soprattutto Take on me degli A-ha, gruppo iconico norvegese della seconda metà degli anni '80 che spopolò in tutta Europa e non solo, che proprio nel videoclip di quella canzone univano il disegno animato alle riprese, proprio come il film di Rasmussen.
Tra gli altri pezzi, più recenti, Veridis Quo dei Daft Punk, Breathe In dei Low Roar, presenti anche nei titoli di coda con Help me, senza dimenticare le musiche originali del compositore svedese Uno Helmersson, basilari per le atmosfere e commoventi per l'intensità, come nel caso di Fleeing Kabul.
Tutto è decisamente intenso, travolgente e significativo in questo documentario sui generis e, su tutto, spicca l'emozione dell'abbraccio tra il fratello maggiore e Amin, quando questi gli dichiara la propria omosessualità: tutto il timore di chi sapeva che in Afghanistan non esisteva nemmeno la parola per definirli, consapevole che i gay venissero considerati una vergogna per le famiglie d'appartenenza, si scioglie in un attimo. Quel sincero amore fraterno, racchiuso in un semplice e diretto "non preoccuparti, l'abbiamo sempre saputo", vale l'intero film.
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