Francesco Munzi trasforma una storia calabrese in una tragedia classica filtrata attraverso Scorsese, De Niro e Abel Ferrara, e realizza un film bellissimo, tra i migliori italiani degli ultimi tempi.
La vicenda, ispirata all'omonimo romanzo di Gioacchino Ciriaco, che ha collaborato alla sceneggiatura insieme al regista, a Fabrizio Ruggirello e a Maurizio Braucci, lega Lombardia e Calabria come territori di collaborazione malavitosa, con la famiglia Carbone, divisa tra nord e sud. Tre fratelli, Luigi (Marco Leonardi), Rocco (Peppino Mazzotta) e Luciano (Fabrizio Ferracane), i primi due trafficanti di cocaina nei pressi di Lecco, il terzo che vive in Calabria tentando di rimanere fuori dai loschi giri dei fratelli minori e occupandosi, insieme alla moglie Antonia (Anna Ferruzzo), della campagna.
I tre hanno temperamenti totalmente differenti. Luigi è l'eterno bambino, single, sbruffone, istintivo, un Tony Camonte (Scarface, Hawks 1932) dei giorni nostri: nei pressi di Lecco si ferma per compiere un reato di abigeato con i suoi uomini per poi sgozzare le due pecore, in quello che sembra solo un gioco finalizzato a nutrire il bisogno di ritornare al passato e alle proprie origini; a casa, in Calabria, porta gioielli alla madre e alla sorella. Rocco è la mente razionale: si è integrato perfettamente a Milano, ha sposato Valeria (Barbora Bobuľová), una donna profondamente lontana dal modello femminile meridionale, e vive in una casa arredata con mobili d'epoca e dipinti da antiquari; non agisce mai impulsivamente, cerca di limitare l'istinto di Luigi ed è pronto a chiedere scusa se questo gli conviene anche a costo di rimetterci l'onore.
Luciano è un uomo silenzioso, tutto lavoro e famiglia, fedele ad una religione esotericamente intesa, come spesso capita da quelle parti - lo vediamo prendere delle medicine mescolate con il terriccio raccolto vicino alla statua di un santo -, ma con un figlio, Leo (Giuseppe Fumo), che non ne segue le orme.
Se i tre fratelli ricordano tanto i Fratelli di Abel Ferrara (1996), infatti, il giovane Leo è affascinato molto più dall'esempio dello zio Luigi che da quello del padre Luciano, un po' come accadeva al Calogero di Bronx (De Niro 1993), combattuto tra il Sonny di Chazz Palminteri e il padre Lorenzo interpretato da Robert De Niro.
Il film è tutto nei contrasti: non solo quelli tra i fratelli, ma anche quello tra le cognate Antonia, moglie di Luciano, e Valeria, moglie di Rocco; tra Leo e l'amico Peppe che lo segue in ogni sua scorribanda; ma soprattutto tra le famiglie rivali, che si dividono la valle tra le montagne dell'Aspromonte, per loro centro dell'universo, sulla quale Luciano pronuncia una delle battute più significative del film, quando il fratello Luigi gli propone un ambizioso progetto di poterne controllare metà: «E cosa me ne faccio di mezza montagna?».
Antonia è legata, come il marito, alla tradizione, e sa come sia giusto comportarsi secondo la mentalità del luogo, mentre Valeria è la dissidente, che non accetta il silenzio assordante dei familiari nei momenti più difficili, ma allo stesso tempo, nella sua massima contraddizione, che ne accerta la colpevolezza, pur sapendo come si è generata la ricchezza della sua famiglia, fa finta di ignorarla e si alza semplicemente da tavola quando i discorsi si fanno complicati...
Leo è un ragazzo impulsivo, proprio come lo zio Luigi, che a Milano lo prende sotto la sua ala e lo fa iniziare dalla gavetta, e come lui è una persona generosa, di cuore, ma con il grande difetto che i pensieri sono un tutt'uno con l'azione; mentre il suo migliore amico e meno coraggioso, lo segue per non risultare vigliacco, e la paura talvolta può giocare dei brutti scherzi...
La famiglia Carbone si scontra e si allea a seconda delle occasioni con i Ferraro, i Tallura, i Barreca: le faide tra di loro si perdono in un passato che affonda le sue radici almeno nella generazione precedente, quando Bastiano, il padre dei tre fratelli, venne ucciso a sangue freddo per un regolamento dei conti, in una realtà in cui, ancora oggi, basta dare dei "quaqquaraqquà" a qualcuno per vedersi distruggere il proprio bar a colpi di fucile.
Francesco Munzi, al suo terzo lungometraggio dopo Saimir (2004) e Il resto della notte (2008), gira in maniera esemplare, citando i grandi esempi statunitensi dei gangster movie. Oltre ai titoli già proposti - e Fratelli di Abel Ferrara torna ancora nell'intensa scena dell'obitorio - si pensi soprattutto all'ostentazione del denaro nella primissima sequenza che rimanda subito al miglior Scorsese di Quei bravi ragazzi, Casinò, e, ovviamente, The Wolf of Wall Street. Munzi, inoltre, sembra rifarsi anche alla pittura americana e a dimostrarlo ci pensa un bellissimo campo lungo di un bar calabrese in cui sta passando la serata Luigi, che fa tanto pensare ad una delle più celebri tele di Edward Hopper (The Nightwalks, 1942, Chicago, Art Institute).
Allo stesso tempo, però, il film è totalmente calato nella realtà italiana e sono piccoli gioielli le scene del pranzo domenicale in campagna tra i Carbone e i Tallura, dove vengono fatti conoscere i due rampolli delle rispettive famiglie, Leo e Lucia, come se fossimo ancora in una corte rinascimentale; il funerale con le prefiche; la messa in chiesa in cui l'ansia dei personaggi è espressionisticamente resa attraverso le inquadrature sfocate; il finale che non può lasciare indifferenti...
Ottimo il cast, tra cui però meritano una menzione speciale Fabrizio Ferracane, nei panni di Luciano, e Aurora Quattrocchi in quelli della mamma dei tre fratelli: eccezionale il primo, capace di implodere e di esplodere fino all'insania, con un ghigno beffardo e un volto sempre espressivo; perfetta la seconda, con il viso segnato da profonde rughe, perlopiù impassibile, ma che con minimi movimenti mostra i sentimenti contrastanti del suo personaggio.
L'incetta di premi ai David di Donatello 2015, tra cui miglior film, regia, sceneggiatura, fotografia (Vladan Radovic), montaggio (Cristiano Travaglioli), colonna sonora (Giuliano Taviani), in parte bissati al Nastro d'argento, appaiono decisamente meritati.
L'antica Grecia di Eschilo, Sofocle ed Euripide non è mai stata così vicina...
La vicenda, ispirata all'omonimo romanzo di Gioacchino Ciriaco, che ha collaborato alla sceneggiatura insieme al regista, a Fabrizio Ruggirello e a Maurizio Braucci, lega Lombardia e Calabria come territori di collaborazione malavitosa, con la famiglia Carbone, divisa tra nord e sud. Tre fratelli, Luigi (Marco Leonardi), Rocco (Peppino Mazzotta) e Luciano (Fabrizio Ferracane), i primi due trafficanti di cocaina nei pressi di Lecco, il terzo che vive in Calabria tentando di rimanere fuori dai loschi giri dei fratelli minori e occupandosi, insieme alla moglie Antonia (Anna Ferruzzo), della campagna.
I tre hanno temperamenti totalmente differenti. Luigi è l'eterno bambino, single, sbruffone, istintivo, un Tony Camonte (Scarface, Hawks 1932) dei giorni nostri: nei pressi di Lecco si ferma per compiere un reato di abigeato con i suoi uomini per poi sgozzare le due pecore, in quello che sembra solo un gioco finalizzato a nutrire il bisogno di ritornare al passato e alle proprie origini; a casa, in Calabria, porta gioielli alla madre e alla sorella. Rocco è la mente razionale: si è integrato perfettamente a Milano, ha sposato Valeria (Barbora Bobuľová), una donna profondamente lontana dal modello femminile meridionale, e vive in una casa arredata con mobili d'epoca e dipinti da antiquari; non agisce mai impulsivamente, cerca di limitare l'istinto di Luigi ed è pronto a chiedere scusa se questo gli conviene anche a costo di rimetterci l'onore.
Luciano è un uomo silenzioso, tutto lavoro e famiglia, fedele ad una religione esotericamente intesa, come spesso capita da quelle parti - lo vediamo prendere delle medicine mescolate con il terriccio raccolto vicino alla statua di un santo -, ma con un figlio, Leo (Giuseppe Fumo), che non ne segue le orme.
Se i tre fratelli ricordano tanto i Fratelli di Abel Ferrara (1996), infatti, il giovane Leo è affascinato molto più dall'esempio dello zio Luigi che da quello del padre Luciano, un po' come accadeva al Calogero di Bronx (De Niro 1993), combattuto tra il Sonny di Chazz Palminteri e il padre Lorenzo interpretato da Robert De Niro.
Antonia è legata, come il marito, alla tradizione, e sa come sia giusto comportarsi secondo la mentalità del luogo, mentre Valeria è la dissidente, che non accetta il silenzio assordante dei familiari nei momenti più difficili, ma allo stesso tempo, nella sua massima contraddizione, che ne accerta la colpevolezza, pur sapendo come si è generata la ricchezza della sua famiglia, fa finta di ignorarla e si alza semplicemente da tavola quando i discorsi si fanno complicati...
Leo è un ragazzo impulsivo, proprio come lo zio Luigi, che a Milano lo prende sotto la sua ala e lo fa iniziare dalla gavetta, e come lui è una persona generosa, di cuore, ma con il grande difetto che i pensieri sono un tutt'uno con l'azione; mentre il suo migliore amico e meno coraggioso, lo segue per non risultare vigliacco, e la paura talvolta può giocare dei brutti scherzi...
La famiglia Carbone si scontra e si allea a seconda delle occasioni con i Ferraro, i Tallura, i Barreca: le faide tra di loro si perdono in un passato che affonda le sue radici almeno nella generazione precedente, quando Bastiano, il padre dei tre fratelli, venne ucciso a sangue freddo per un regolamento dei conti, in una realtà in cui, ancora oggi, basta dare dei "quaqquaraqquà" a qualcuno per vedersi distruggere il proprio bar a colpi di fucile.
La scena del bar e The Nightwalks di Edward Hopper |
Allo stesso tempo, però, il film è totalmente calato nella realtà italiana e sono piccoli gioielli le scene del pranzo domenicale in campagna tra i Carbone e i Tallura, dove vengono fatti conoscere i due rampolli delle rispettive famiglie, Leo e Lucia, come se fossimo ancora in una corte rinascimentale; il funerale con le prefiche; la messa in chiesa in cui l'ansia dei personaggi è espressionisticamente resa attraverso le inquadrature sfocate; il finale che non può lasciare indifferenti...
Ottimo il cast, tra cui però meritano una menzione speciale Fabrizio Ferracane, nei panni di Luciano, e Aurora Quattrocchi in quelli della mamma dei tre fratelli: eccezionale il primo, capace di implodere e di esplodere fino all'insania, con un ghigno beffardo e un volto sempre espressivo; perfetta la seconda, con il viso segnato da profonde rughe, perlopiù impassibile, ma che con minimi movimenti mostra i sentimenti contrastanti del suo personaggio.
L'incetta di premi ai David di Donatello 2015, tra cui miglior film, regia, sceneggiatura, fotografia (Vladan Radovic), montaggio (Cristiano Travaglioli), colonna sonora (Giuliano Taviani), in parte bissati al Nastro d'argento, appaiono decisamente meritati.
L'antica Grecia di Eschilo, Sofocle ed Euripide non è mai stata così vicina...
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