venerdì 31 luglio 2015

La casa dalle finestre che ridono (Avati 1976)

Al suo quinto lungometraggio (vedi il film), Pupi Avati, dopo alcune commedie ed una storia gotica, portò alle estreme conseguenze quel genere che aveva appena toccato qualche anno prima con Thomas e gli indemoniati (1970).
I titoli di testa scorrono sulle urla di un uomo appeso per le braccia e accoltellato... 
L'angosciante prologo è un'anticipazione dell'antefatto della vicenda, che prende le mosse dall'arrivo nella campagna ferrarese di Stefano (Lino Capolicchio), un restauratore che deve intervenire su un affresco in una chiesa del piccolo centro della Bassa padana in cui è ambientata la storia. Il luogo, pur se non citato nel film, è Comacchio, come dimostrano le belle sequenze a cui fanno da sfondo i canali della cittadina sul delta del Po (trailer).

Il dipinto in questione, un martirio di san Sebastiano (ma in un giallo-horror che si rispetti la realtà non è mai quello che sembra, nemmeno quella di un'iconografia così consolidata), è stato realizzato da Buono Legnani (Tonino Corazzari), un artista locale morto suicida, ma sul cui conto girano strane ed inquietanti storie, a partire dal suo soprannome, "il pittore di agonie"...

Il regista bolognese scrisse la sceneggiatura in collaborazione con il fratello minore Antonio, Gianni Cavina - che vi compare anche come interprete - e un inaspettato Maurizio Costanzo, in anni in cui la più nota camicia coi baffi del tubo catodico scriveva su vari fronti e con successi assoluti, si pensi ad esempio alla celebre canzone Se telefonando (1966) ideata con Morricone e poi affidata a Mina.
La centralità della pittura nel soggetto della pellicola - non solo per l'affresco, ma anche per la collezione di dipinti che il signor Poppi (Andrea Matteuzzi) illustra a Stefano, è evidentemente un elemento autobiografico rilevante, dato che Giuseppe (detto Pupi) e Antonio erano figli di un antiquario bolognese.
Una serie di personaggi del film, anche quelli minori, sono ben delineati, a partire dal subdolo sindaco Solmi (Bob Tonelli), che va a prendere Stefano al suo arrivo e che - se solo non fosse altamente improbabile - sembrerebbe il modello perfetto del nano interpretato da Michael J. Anderson in Twin Peaks. E così il toccatello Lidio (Pietro Brambilla), l'aiutante del pusillanime parroco, don Orsi (Eugene Walter), un don Abbondio ben più obliquo; e ancora Antonio Mazza (Giulio Pizzirani), l'amico di Stefano, apparentemente uscito da un esaurimento nervoso, che lo ha segnalato per il lavoro di restauro; la maestra di scuola (Vanna Busoni), con la fama di ninfomane, che fa pensare molto alla Gradisca felliniana di Amarcord (1973); il tassista Coppola (Gianni Cavina), l'unico a ricordare di aver visto dipingere Legnani; la misteriosa "paralitica" (Pina Borione), la padrona della casa in cui viene ospitato Stefano, dopo che l'albergo gli ha chiesto di lasciare la stanza in vista dell'improbabile arrivo di turisti; la giovanissima Francesca (Francesca Marciano), la maestra venuta per sostituire la precedente, con la quale Stefano inizia una relazione amorosa. 
Quest'ultima è indubbiamente uno degli elementi più deboli della trama e a renderla ancora più evanescente contribuisce la colonna sonora di Amedeo Tommasi, che mentre svolge perfettamente la sua funzione nei momenti più misteriosi, quando fa da contrappunto alle scene dell'inserto sentimentale diventa mediocre e banale. 
Dal punto di vista narrativo, il nodo centrale del film è il silenzio e il perbenismo della provincia, dietro il quale si nascondono le più atroci realtà. Sono, quindi, proprio i personaggi socialmente meno accettati ad essere i più utili - e quindi i più simpatici per chi guarda - alle indagini di Stefano. Sono loro che vorrebbero far cadere i misteri che aleggiano nel paese sulla vita di Legnani e sulla reale natura dell'affresco: i dubbi di Antonio, rivelati all'amico durante una cena, vengono confermati dalla maestra e ancora di più da Coppola, l'iroso alcolista con sfocati ma illuminanti ricordi d'infanzia, che condurrà il restauratore davanti alla casa del titolo. E, a confermare questo leitmotiv, contribuisce la sequenza in cui Stefano, ferito, cerca l'aiuto di qualcuno in paese, ma trova solo porte chiuse, mentre il regista ci mostra le reazioni dei personaggi più influenti, che osservano da dietro le tapparelle senza mai aprirle.
Alcune sequenze, come quella appena descritta, sono autentici pezzi di bravura registica, che raggiunge il suo apice quando un'inquadratura buia all'interno della casa della "paralitica" viene letteralmente tagliata da fasci di luce che proiettano lunghe ombre espressioniste...
Pupi Avati lavora molto anche sul sonoro, elemento drammaturgico essenziale di ogni horror, cosicché giocano un ruolo importante, oltre alla colonna sonora, anche le telefonate anonime ricevute da Stefano e, in particolar modo, le terribili registrazioni che il protagonista ritrova nella vecchia casa di cui è ospite.
Eppure La casa dalle finestre che ridono non funziona benissimo e mostra tutti i suoi quasi quarant'anni. La recitazione degli attori non è indimenticabile, e lo stesso Capolicchio non appare all'altezza del ruolo.
L'indubbio fascino di alcuni passaggi e soprattutto della parte finale, con colpi di scena insospettabili, non può bastare a riabilitare i precedenti cento minuti a ritmi troppo bassi di una storia che, vista oggi, non riesce nell'obiettivo di un film giallo-horror, che per definizione non dovrebbe annoiare mai e, se non proprio far sobbalzare dalle poltrone, almeno tenere incollati ad esse... 

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