venerdì 7 novembre 2014

Torneranno i prati (Olmi 2014)

A 83 anni Ermanno Olmi sfodera un altro capolavoro! Torneranno i prati è un piccolo gioiello che racconta la storia di alcuni commilitoni italiani in trincea a Dosso di Sopra, in Val Formica, lo splendido luogo in cui è ambientata la vicenda e in cui sono state effettuate le riprese.
Siamo nel 1917, sul fronte nord orientale, in piena Prima guerra mondiale, e gli eventi sono liberamente ispirati al racconto di Federico De Roberto La paura (1921).
La breve durata (solo 80 minuti) permette al regista di non fare concessioni e di mantenere uno stile incredibilmente rigoroso, fatto di inquadrature splendide e di un ritmo lento e angosciante: la mdp indugia sulle montagne coperte dalla neve, sui tagli di luce all'interno della trincea, sugli animali che abitano i dintorni e, soprattutto, sui volti dei soldati, che trasformano le immagini in ritratti degni dei pittori fiamminghi: volti di cui vediamo i dettagli, le rughe, gli occhi e, attraverso questi, il sentimento di sconforto che li domina.
Al piccolo manipolo di soldati arrivano ordini impossibili da eseguire, che li condannano ad essere martiri: è per questo che uno di loro, piuttosto che farsi uccidere dagli austriaci, dopo aver fatto pipì nella neve ("anche le bestie pisciano e cacano prima di andare al macello") si suicida davanti al maggiore, interpretato da un sorprendente Claudio Santamaria.
La poesia di Olmi non è solo nel sapiente uso della mdp, ma anche nella bellissima sceneggiatura, in cui si fondono i diversi dialetti italiani, ribadendo come la nostra lingua visse un momento fondamentale proprio nel corso della Grande guerra: dal napoletano (uno dei soldati canta Fenesta ca lucive di Vincenzo Bellini) ai più attagliati idiomi padani cari al regista bergamasco. A prescindere dai dialetti utilizzati, restano nella memoria delle linee di sceneggiatura taglienti come la luce della splendida fotografia di Fabio Olmi, declinata su tonalità brune, che investono soprattutto il senso della religione in momenti così difficili, una religione rurale che genera un rapporto diretto con la divinità, spesso affrontata confidenzialmente e a viso aperto da chi è rassegnato ad essere sfruttato e dimenticato anche dalle alte sfere: "meglio il freddo di qua che il caldo dell'aldilà", ma soprattutto, parlando di Dio, "nessuno sa dove si nasconda", "non ha ascoltato suo figlio sulla croce, vuoi che ascolti noi, poveri cani?".
Viene in mente il crocifisso bruciato per accendere il fuoco dai lanzichenecchi nello straordinario Il mestiere delle armi (2001), con cui il nuovo film del maestro lombardo condivide anche una incredibile somiglianza del giovane tenente Alessandro Sperduti con Hristo Jivkov che allora interpretava Giovanni dalle Bande Nere. È quindi evidente che siamo molto lontani da film di trincea come Orizzonti di gloria (1957) e decisamente più vicini alla dimensione umana della guerra, quella che non ha epoche e che, quindi, permette di affiancare i sentimenti provati dai soldati in prima linea di una battaglia cinquecentesca a quelli di coloro che furono in trincea nella Prima guerra mondiale, appunto.
Tra i tanti momenti lirici della pellicola non va dimenticata la bellissima immagine, a proposito di ruralità, dei campanacci da mucca lungo il filo spinato (non a caso utilizzata per la locandina) o l'evocativa inquadratura dal basso della neve che scende dal cielo. Ce n'è poi uno quasi felliniano, in cui due commilitoni osservano un larice davanti alla trincea che diventa color oro quando gli altri alberi perdono il loro colore: sarà proprio il larice il primo ad incendiarsi all'esplosione della prima bomba nella zona. E non può non far pensare a Fellini, quello de La voce della luna (1990), anche la sequenza in cui un soldato guarda dalla feritoia una commovente luna piena che illumina la trincea.

Torneranno i prati è un film sulla memoria, che è memoria di una nazione, allora ai primi vagiti; di un popolo, che stava iniziando a riconoscersi come tale; ma anche del singolo, in questo caso lo stesso Olmi che inserisce la toccante dedica familiare alla fine della pellicola: "Al mio papà, che quand'ero bambino mi raccontava della guerra dov'era stato soldato".
In tutto il film, arricchito dalle belle musiche di Paolo Fresu, si respira l'aria della tragedia incombente e le bombe e i tanti morti la rendono reale in pochi minuti. La toccante lettera del "tenentino" alla madre, in cui sente di essere invecchiato molto di più del tempo realmente passato in trincea, è una bellissima confessione che è al tempo stesso una dichiarazione di resa, non solo allo straniero, ma anche ai propri ideali e ai propri sogni, ormai privi di senso.
È qui, dopo che la morte è arrivata, che uno dei soldati superstiti evidenzia l'assenza di significato di tutto questo e come, una volta ricresciuta l'erba, laddove ora c'è solo neve, non rimarrà più traccia di cosa è avvenuto, di quanto si è patito in quel luogo...
Nell'ossessiva ricerca alla celebrazione del centenario della Prima guerra mondiale, non sempre frutto di reale riflessione, quanto di corsa all'accaparramento di fondi messi a disposizione dallo Stato, il film di Olmi è di gran lunga la nota più alta raggiunta finora dalla cultura italiana.    

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