lunedì 25 aprile 2016

C'era una volta in America (Leone 1984)

Una doverosa premessa: questa recensione non potrà mai essere completa, sarà un continuo lavoro di aggiunte e di rielaborazioni, altrimenti non credo inizierei nemmeno a scriverla, poiché sono troppe le idee, troppe le suggestioni che mi si affastellano nella mente, pensando a quello che ritengo un film assoluto e davvero troppo grande per scriverne in una volta sola...
Tre ore e quaranta, quattro nel director's cut, eppure una storia che non si vorrebbe finisse mai, a mio avviso il massimo capolavoro di Sergio Leone e tra le più belle pellicole mai realizzate.
Una pellicola in cui sembra esserci tutto: amicizia, amore, fiducia, menzogna, tradimento, competizione, gioia, potere, fallimento, malinconia, ricordi, e tanto altro ancora, narrati attraverso una struttura dominata dal flashback, grazie ad un montaggio alternato e perfetto, capace di alternare le 'tre età dell'uomo', passando da quella adulta alla vecchiaia e da questa all'adolescenza, per poi mescolarle di nuovo in modo da seguire le vite dei protagonisti, rigorosamente accompagnate da una delle migliori colonne sonore di sempre, firmata Ennio Morricone.
Nel 1922 Noodles (Scott Schutzman Tiler e Robert De Niro), Patsy (Brian Bloom e James Hayden), Cockeye (Adrian Curran e William Forsythe) e Dominic (Noah Moazezi), sono quattro amici del quartiere ebreo di New York, che si uniscono a Max (Rusty Jacobs e James Woods), ragazzo d'origine italiana, per diventare una banda indipendente da Bugsy (James Russo), il boss della zona, anche grazie alla connivenza del poliziotto Whitey (Richard Foronjy), i cui servigi i ragazzi sapranno dirottare in loro favore attraverso il ricatto.
Noodles è innamorato di Deborah (Jennifer Connelly e Elizabeth McGovern), la bella sorella di Fat Moe (Mike Monetti e Larry Rapp), che trova lo spazio e il tempo di coltivare il suo sogno di ballerina nel retrobottega del ristorante di famiglia, sotto gli occhi di Noodles che la spia dal bagno non sempre ignorato.
Sarà soprattutto grazie alle idee di Noodles, la vera mente del gruppo, che gli amici otterranno i primi lavori nella distribuzione di alcol in piena età del proibizionismo, ma la sua generosità lo condurrà in riformatorio. Nel 1933, una volta uscito - è questo il momento in cui tutti i personaggi vedono l'avvicendamento degli attori che li interpretano -, Noodles troverà una situazione totalmente cambiata, con la gang, che ormai rappresenta una delle bande più influenti di New York e non solo, invischiata anche in politica e con i sindacati (il sindacalista James Conway O'Donnell è interpretato da Treat Williams). L'idea di pensare in grande, però, come vorrebbe Max, che durante la sua assenza ha preso il comando, non convince a pieno Noodles. Il proibizionismo finirà e bisognerà adattarsi a questo enorme cambiamento, ma le divergenze tra i due leader complicheranno le cose.
Nel 1968, dopo oltre trent'anni da questi avvenimenti, Noodles tornerà a New York e cercherà di scoprire chi lo ha invitato ad una festa molto esclusiva per chiedergli un grande favore. Il ritorno si trasformerà nell'occasione per ricordare il proprio passato...

Tratto da un mediocre romanzo di gangster Mano armata (The Hoods, Harry Grey 1952), il soggetto venne totalmente stravolto e arricchito da Sergio Leone, che lavorò alla sceneggiatura per dieci lunghi anni insieme a Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Enrico Medioli, Franco Arcalli e Franco Ferrini. Il lavoro di trasformazione fu così ampio che risultano rari i passi del libro di Grey associabili al film. 
Assurda la scelta del produttore Arnon Milchan - che compare nel film come chauffeur di Noodles -, che decise di distribuire la pellicola con un montaggio sequenziale, snaturandone la struttura narrativa e rendendolo di fatto un film "normale", peraltro emendato degli episodi dell'infanzia e ridotto ad un totale di circa due ore. Solo così oggi è possibile giustificare che l'Academy Awards non degnò di attenzione C'era una volta in America, peraltro recitato in lingua inglese, nella cerimonia degli Oscar del 1985 (fu l'anno del trionfo di Amadeus di Forman), e comprendere come non abbia ricevuto nemmeno una candidatura. Ma veniamo all'analisi del film...

Se i flashback sono la caratteristica dominante della narrazione, le ellissi ne costituiscono quasi sempre la soluzione figurativa che li introduce. La lampada della fumeria d'oppio diventa un lampione in strada nella notte piovosa che rappresenta uno dei nodi narrativi dell'intera storia, in un momento in cui l'ellissi è anche sonora, con gli squilli telefonici che si sentono in entrambi i casi. Più avanti la cosa si ripete alla stazione ferroviaria: Noodles nel 1933 si ferma davanti ad una parete decorata che poco dopo 'si aggiorna' con l'immagine di una Grande mela pop, pienamente anni '60.
Nonostante il film sia profondamente drammatico, non mancano le sequenze da commedia, che stemperano i toni gravi, come quella in cui Joe (Burt Young) racconta l'idea di una proficua "assicurazione d'o cazz' " per le mancate erezioni, da proporre al suo assicuratore personale (vedi), ma anche quella bellissima, anche cinematograficamente parlando, ambientata nel reparto maternità dell'ospedale, in cui i "ragazzi" mischiano i neonati per ricattare il capo della polizia Vincent Aiello (Danny Aiello), sulle note de La gazza ladra di Rossini (vedi). Non è un caso, ovviamente, che proprio in questa scena il ruolo principale lo abbia Cockeye, interpretato da William Forsythe, l'attore che aveva partecipato al film che più di ogni altro è connesso a quella musica, Arancia Meccanica (Kubrick 1969).
Gag di pura ironia macabra è, infine, quella che segna l'accoglienza riservata dagli amici a Noodles all'uscita dalla galera (momento in cui, peraltro, si avvicendano gli attori adulti ai più giovani), una prostituta nuda nella bara, sulla quale Max sentenzia: "si rivolta nella bara... un'anima in pena". E così lo stesso Max, dopo la citata sequenza della nursery, sintetizza il tutto con "noi siamo come il destino: chi va a stare bene, chi va a prenderselo nel culo".
Ma la sceneggiatura del film ha consegnato diverse battute indimenticabili alla storia del cinema. Si va dalla più famosa di tutte: "Cosa hai fatto in tutti questi anni, Noodles?" "Sono andato a letto presto", di proustiana memoria, ad un altro scambio tra Fat Moe e Noodles, con quest'ultimo che dice "i vincenti si riconoscono alla partenza... chi avrebbe puntato su te?" e si sente rispondere con ammirazione "io avrei puntato tutto su te", per poi chiudere con amarezza "e avresti perso". Anche le battute tra Noodles e Deborah sono bellissime e ne è un esempio una sequenza significativamente dominata dagli specchi, con i due ormai anziani che si guardano solo attraverso di essi e mai direttamente negli occhi, in cui Deborah nel proprio camerino dice malinconicamente "l'unica cosa che ci resta è qualche ricordo, e se sabato sera andrai a quella festa neanche quelli ti rimarranno".
I corpi senza vita in C'era una volta in America
e in C'era una volta il West
Oltre all'incipit di Alla ricerca del tempo perduto di Proust, ci sono altre le citazioni letterarie. Una è da Jack London: Noodles nel bagno condominiale, dove si rifugia per leggere, conserva una copia di Martin Eden, storia di un giovane del popolo in cui probabilmente trova semplice identificarsi. Un'altra è dal Cantico dei cantici parafrasato da Deborah, che attraverso il brano biblico rivela le proprie idee romantiche a Noodles, ma allo stesso tempo l'impossibilità del loro amore. Dalla Bibbia deriva anche la battuta di Noodles, che si rifà alla storia di Lot e della moglie, quando molti anni dopo chiede a Deborah, nel suo camerino: "hai paura che mi trasformi in una statua di sale?" "se esci da quella porta sì".

Tanti i bei movimenti della mdp e le trovate narrative che utilizzano sapientemente i mezzi cinematografici. Tra i primi si pensi ai tanto amati dolly di Sergio Leone, usati quando Noodles torna nel quartiere ebraico in cui è cresciuto e assiste alle ruspe che smontano il vecchio cimitero, ma soprattutto nella prima sequenza esterna del flashback che narra la vita delle stesse strade dopo la Prima guerra mondiale, quando l'uscita di Noodles alla ricerca di Deborah è l'occasione di uno splendido movimento verso l'alto della mdp che ci permette di vedere l'intera ricostruzione del quartiere stesso in cui è ambientata la vicenda, qualcosa di molto simile ancora a C'era una volta il West, in cui lo stesso movimento era funzionale a far vedere l'intera zona attorno alla ferrovia.
L'inquadratura dal baldacchino in C'era una 
volta in America e in C'era una volta il West
Come non citare il ralenti della sequenza della morte di Dominic ("Noodles, sono inciampato")? Il tempo si dilata e la tragedia è lentissima, contrapposta al passaggio precedente, velocissimo, forse quello più sereno e felice dell'intero film, con il gruppo che corre sotto il ponte di Brooklyn, nell'immagine che viene immortalata nella bellissima locandina.
Nel generare tensione Leone è un maestro assoluto, come dimostra quella generata nello spettatore con i famosissimi 24 squilli di telefono (v. oltre), o da un semplice cucchiaino che gira il caffè, come fa Noodles davanti agli altri, che ne attendono e ne temono la reazione, in un momento interminabile, tipico della dilatazione temporale dei migliori western leoniani.
E proprio rispetto a quelli, ci sono almeno due autocitazioni iconografiche nel film. La prima è quella dei corpi senza vita che Noodles guarda in una notte di pioggia sull'asfalto, identica e geometricamente contrapposta a quella che Jill vede in C'era una volta il West (1968), con i defunti disposti in fila, e poi, naturalmente, la più famosa, quella del magnifico finale che chiude la perfetta circolarità del film con uno dei pochi momenti di serenità di Noodles, sdraiato sul letto dopo aver fumato l'oppio, inquadrato dall'alto, con un tessuto che copre la parte superiore del baldacchino che fa da filtro, nello stesso modo in cui viene ripresa Jill-Claudia Cardinale in C'era una volta il West (1968), ma con l'aggiunta del più bel sorriso della storia del cinema!
Meriterebbe una recensione a parte la meravigliosa colonna sonora (ascolta) di Ennio Morricone, che va dalla struggente Poverty, che segna i momenti difficili dei protagonisti, al Deborah's theme, dedicato alla protagonista femminile; da Childhood memories, che alterna la tensione data dalle note del flauto di pan - lo strumento del film, spesso diegeticamente suonato in scena da Cockeye (Cockeye's song) - alla spensieratezza infantile; dalle romantiche Amapola e Friends, alla  Prohibition Dirge, che passa dai toni funebri ad un festoso charleston, in ossequio al "funerale" organizzato per la fine del proibizionismo. Su tutte, però, la straordinaria Photographic memories, in assoluto il motivo più famoso del film (usato anche per note pubblicità), e la coinvolgente e commovente Friendship & Love.
A completare questa eccezionale sequenza di brani, infine, intervengono anche brani non composti da Morricone, come la già citata Gazza ladra di Rossini, Yesterday dei Beatles (naturalmente utilizzata per uno dei tanti passaggi temporali costituiti da ricordi) e la splendida Night and day.

Gli oggetti in CEUVIA
C'era una volta in America è anche un film di oggetti, oggetti significanti che, come spesso capita nella storia del cinema (si veda il bellissimo libro di Antonio Costa, La mela di Cézanne e l'accendino di Hitchcock, 2014), contribuiscono in maniera determinante a fare di questa pellicola un capolavoro. In questa sezione ne voglio analizzare alcuni, a mio avviso fondamentali.

Il telefono, con i suoi 24 squilli che diventano un'ossessione e attraversano l'analessi, da Noodles nella fumeria d'oppio a Noodles che alza quella cornetta per effettuare la chiamata che gli cambierà irrimediabilmente la vita.

La pendola del Fat Moe's è un oggetto della memoria: Noodles torna nel quartiere dopo trentacinque anni, la prima cosa che dice quando rivede l'amico Fat Moe è "ti ho riportato la chiave della pendola", come se mancasse dalla sera prima. E il grande mobile-orologio è un oggetto caratterizzante del locale, è sempre stato lì, sin da quando erano bambini, e prima dell'esilio del protagonista, davanti ad essa ha sparato ad un uomo, salvando la vita allo stesso Moe.

La valigia della cassetta di sicurezza (n. 636) è il simbolo dell'amicizia dei cinque ragazzi, la valigia dei sogni, la valigia del tradimento e anche l'unico mezzo con cui Max comunica sinceramente con Noodles da anziano. Non il classico macguffin hitchcockiano utilizzato spesso anche da Tarantino con il bagagliaio dell'auto o con la stessa valigetta di Pulp Fiction che non sapremo mai cosa contiene, ma un dispositivo significante, simbolico e che relaziona i personaggi.
La chiave che la apre è affidata a Fat Moe che la conserva nella pendola già citata.

L'orologio da taschino è quello che apre e chiude l'amicizia tra Max e Noodles: è parte del bottino di un vecchio ubriacone da derubare che Max sottrae agli altri quattro approfittando dell'arrivo del poliziotto di quartiere; è quello che vale a Noodles il ruolo di "zio" di Max, appellativo che il personaggio di De Niro utilizzerà decenni dopo per entrare nella misteriosa cappella funebre in cui sono sepolti i suoi amici.

La charlotte alla panna è la pastarella-pagamento per Peggy, pronta ad offrire le prime esperienze sessuali ai ragazzi del circondario in cambio di questo dolce. Straordinaria la sequenza degna del cinema muto, in cui Patsy, costretto ad aspettare fuori dalla porta di Peggy, durante l'attesa non riesce a resistere alla tentazione di mangiarla, rinunciando ad altri piaceri.
La "charlotte con tanta panna" diventa anche il nomignolo con cui Noodles, appena tornato dal carcere, saluta Peggy, affondando il suo volto tra i suoi seni.

La mattonella è ovviamente quella che Noodles toglie dalla parete del muro del bagno del Fat Moe's per spiare Deborah mentre danza, la stessa che toglierà tornando lì dopo decenni, scatenando tanti ricordi adolescenziali. Lo spazio che ne deriva è una sorta di mascherino cinematografico, un dispositivo che è anche un'allegoria del cinema tout court. L'illustre precedente di questo momento, ovviamente, in chiave decisamente meno romantica, è la sequenza di Psycho (Hitchcock 1960) in cui Norman Bates spia da un buco nel muro Marion Crane.

L'automobile è un oggetto ancora più evocativo: è in fondo una sorella di poco maggiore del cinema in termini di età e nel film di Leone svolge diversi ruoli "principali". L'automobile è presente quando Noodles esce di galera, anche se nella versione carro funebre, con tanto di defunta su cui Max, come già evidenziato, ironizza ("si rivolta nella bara... un'anima in pena"); è quella con cui Noodles fa fare un bagno a tutti lanciandosi in accelerazione da un ponticello di legno; è quella targata New York 8J8276, che Noodles vede e si appunta quando è nel cimitero a visitare il mausoleo degli amici, in una sequenza ripristinata nella versione del director's cut; ma soprattutto è quella in cui Noodles violenta Deborah, nella "più dolce e romantica scena di stupro della storia del cinema" (D. Gabutti, C'era una volta in America. Un'avventura nel saloon con Sergio Leone, Rizzoli 1984 - ristampa Milieu 2015, p. 85). Non è un'automobile, ma possiamo farlo rientrare nella categoria, infine, l'enorme camion tritarifiuti nero e con la scritta rossa "McGeary 35", che vediamo fuori dalla villa del senatore Bailey, protagonista del finale del film...

Questi, però, sono solo alcuni degli oggetti di una lista che potrebbe essere lunghissima, comprendendo anche un trono, quello che Max, in preda al delirio di onnipotenza, dice di aver acquistato per 800 dollari da un antiquario come appartenuto ad un pontefice del Seicento; un grammofono o i sacchi di farina, entrambi elementi che contribuiscono all'immagine indimenticabile di Deborah che danza nel retrobottega del Fat Moe's; i quadri di Tamara de Lempicka, che campeggiano sulle pareti della sala sotterranea del locale gestito dalla banda in pieno proibizionismo; il già citato cucchiaino da caffè, l'oblò da cui Max e Noodles guardano nella sala del proprio locale, ecc.
E, ancora, due oggetti impalpabili, di fatto dei "non oggetti" molto presenti nel film, come le ombre cinesi della fumeria d'oppio (Rama e Ravana, il bene e il male in lotta), nonché il fumo che esce dai tombini del ghetto di New York, in un certo senso la versione materiale di quella "puzza della strada" che Noodles dichiara di amare ancora tanto, facendo infuriare Max.
Come già è stato scritto, il cinema di Leone è "troppo realistico per essere una favola, troppo fiabesco per essere reale. Siamo dalle parti del mito" (Mininni 1995), e C'era una volta in America è uno dei miti del secolo scorso. A dimostrarlo, se ancora ce ne fosse bisogno, è che siamo ancora qui a chiederci se nella sua perfezione, nella circolarità narrativa aperta e chiusa da Noodles nella fumeria cinese, l'intera vicenda sia frutto di un sogno oppure sia accaduta veramente...

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