mercoledì 3 marzo 2021

Il processo ai Chicago 7 (Sorkin 2020)

Dopo venticinque anni da sceneggiatore e il suo primo film da regista - Molly's game (2018) -, Aaron Sorkin gira il suo secondo lungometraggio, ancora una volta di genere giudiziario, ma in questo caso incentrato su uno degli episodi centrali della rivoluzione culturale del 1968. Com'è ovvio che sia, una pellicola realizzata da uno sceneggiatore non può che avere la scrittura al centro dell'opera, che peraltro ha appena vinto il Golden Globe proprio per la sceneggiatura. Non ci si aspettino, però, movimenti particolari o virtuosismi della mdp, né qualcosa che sorprenda lo spettatore, cosicché, a parte il montaggio di Alan Baumgarten, fondamentale nella struttura della trama, il resto del film è tutto nei dialoghi e nella narrazione dei fatti, per un trial movie in piena tradizione statunitense, ben confezionato e retoricamente spielberghiano (trailer).
Una breve introduzione mostra il presidente Johnson dichiarare l'incremento degli arruolati per il Vietnam, mentre, subito dopo, un montaggio ci mostra leader studenteschi, hyppie, Pantere Nere e associazioni antibelliche pronti ad andare a Chicago, per la Convention democratica, quella che cambiò l'atteggiamento del mondo verso il potere, finalmente messo in discussione, combattuto, contrastato. Dopo la morte di Kennedy (1963), Malcolm X (1965) e Martin Luther King (1968) i tempi erano maturi per sfidare l'estabilishment in blocco.
Cinque mesi dopo quell'evento, però, a gennaio 1969, venne eletto come nuovo presidente degli Stati Uniti Richard Nixon, e la restaurazione fu la diretta e inevitabile conseguenza. Fondamentale atto di questo ritorno allo status quo ante è il processo, non certo equo, che dà il titolo alla pellicola e che iniziò nel settembre di quell'anno.
Il film di Alan Sorkin lo racconta sin dal primo giorno, in cui il giudice Julius Hoffman (Frank Langella), imbarazzante per parzialità, si siede nell'aula di tribunale in cui Richard Schultz (Joseph Gordon-Levitt) è il pubblico ministero, coadiuvato da Thomas Foran (J.C. MacKenzie), mentre William Kunstler (Mark Rylance) e Leonard Weinglass (Ben Shenkman) sono gli avvocati difensori dei "sette": gli hyppie Abbie Hoffman (Sacha Baron Cohen) e Jerry Rubin (Jeremy Strong); gli studenti Tom Hayden (Eddie Redmayne) e Rennie Davis (Alex Sharp); gli attivisti Lee Weiner (Noah Robbins), John Froines (Daniel Flaherty), che nel montaggio alternato insegnano come si crea una molotov, e infine David Dellinger (John Carroll Lynch). Nel processo, tra gli imputati, ma privo di avvocato poiché ricoverato in ospedale, venne aggiunto anche Bobby Seale (Yahya Abdul-Mateen II), leader delle Pantere Nere, motivo per cui il gruppo fu chiamato anche i Chicago Eight.
Le dichiarazioni dei testimoni davanti alla corte introducono i flashback dei giorni della Convention, mentre il processo stesso è fatto anche di sotterfugi, strategie, manipolazione della giuria, false lettere minatorie che minacciano le famiglie dei giurati favorevoli alla difesa. Tutto dimostra quanto quel processo sia stato clamorosamente politicizzato e, per questo, gli avvocati difensori andranno a recuperare il precedente procuratore generale del governo, Ramsey Clark (Michael Keaton), che nel suo ruolo di capo del Dipartimento di Giustizia risulterà il teste chiave, poiché preciserà che gli scontri della Convention iniziarono a causa della polizia e non dei manifestanti, peccato però che il giudice non permetterà alla giuria di ascoltare quelle dichiarazioni...
Dopo aver visto il film, sorprende poco che il progetto fosse stato pensato per uscire entro le elezioni presidenziali del 2008 che, comunque, anche senza The Trial of the Chicago 7, hanno portato alla Casa Bianca, dopo George W. Bush, Barak Obama.
Tutto, infatti, era iniziato nel 2006, quando Steven Spielberg chiese a Sorkin di scrivere la sceneggiatura per un film che avrebbe voluto dirigere lui stesso. Spielberg e la sua Dreamworks hanno dovuto rinviare le riprese per anni, cercando di ridurre il budget con un cast meno roboante (tra i primi nomi coinvolti c'erano persino Will Smith e Heath Ledger). Negli anni seguenti, Spielberg ha rinunciato alla regia, mentre Sorkin ha tentato anche di adattare la sceneggiatura per uno spettacolo teatrale, ma alla fine è stato proprio lui a rilevare il ruolo di regista. 
Il 2016, con la vittoria alle elezioni da parte di Donald Trump, è stato l'anno decisivo per il recupero del progetto che, però, ha avuto altre fasi di stanca e invece del 2018, come previsto inizialmente, si è arrivati all'uscita nel 2020, anche se, a causa della pandemia di Covid-19, invece di essere distribuito dalla Paramount, è stato acquistato e diffuso da Netflix.
Tornando alla sceneggiatura, forse il momento più dirompente è nella risposta di Sacha Baron Coen che, nei panni di Abbey Hoffman, alla domanda "Lei disprezza il suo governo?" di Schultz, risponde "credo che le istituzioni della nostra democrazia siano cose meravigliose, che in questo momento sono popolate da persone orribili". C'è tanto Spielberg in questo sensazionalismo verbale e ce n'è ancora di più, decisamente troppo, nel finale retorico e manicheo chiuso dal trionfo del bene e dall'uscita dall'aula del male, nonché dalle didascalie in sovraimpressione che ci informano sul futuro dei singoli personaggi. 
Tutto rientra nei cliché del genere e così, nella totale semplificazione di un tema che avrebbe meritato di certo maggiore approfondimento, non manca nemmeno uno dei "cattivi" che cede alle giuste istanze della fazione opposta.
Un film indubbiamente importante dal punto di vista storico e per la sua funzione didattica, ma in questa veste edulcorata e persino banalizzata, difficilmente rimarrà alla storia per la sua valenza cinematografica.

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