lunedì 10 novembre 2014

Il profeta (Audiard 2009)

Si tratta del film che ha consacrato Jacques Audiard come regista dopo alcuni lavori già apprezzati come Regarde les hommes tomber (1994; César come migliore opera prima), Un héros très discret (1996; migliore sceneggiatura a Cannes), Sulle mie labbra (2001; César per sceneggiatura e sonoro) e Tutti i battiti del mio cuore (2005; otto premi César).
Il profeta, in questa escalation, ha persino raggiunto la nomination tra i migliori film in lingua straniera agli Oscar 2010.

Leggi la trama:
Malik El Djebena è un giovane ragazzo francese di origine araba che entra in carcere, dove dovrà scontare sei anni per aver aggredito un poliziotto durante una rapina. Cresciuto in orfanotrofio, è semianalfabeta e ha passato la sua vita entrando e uscendo dai riformatori.
La vita carceraria lo mette di fronte ad una situazione priva di scelte: il boss còrso César Luciani gli "chiede" di uccidere l'arabo Reyeb e, dopo l'addestramento, Malik riesce nell'impresa che gli vale l'affiliazione al gruppo della mala nel penitenziario. Tutto questo comporta non solo la protezione da parte di Luciani, ma anche la possibilità, per buona condotta, di uscire dal carcere per alcune ore ogni giorno in cui, però, naturalmente viene coinvolto in affari per conto di César.
La "carriera" di Malik cresce gradualmente attraverso missioni esterne in cui prima si occupa della rete di spaccio di droga, coinvolgendo anche l'amico Ryad, che in galera gli ha insegnato a leggere, e arrivando persino a dare consigli al boss su questioni relative ai beur, i francesi d'origine nordafricana come lui, segno dell'ormai guadagnata stima di Luciani; poi in trasferta a Marsiglia, per gestire i rapporti con Brahim Lattrache e, infine, gli viene richiesto di uccidere Mercaggi, il capo di Luciani. È a questo punto che Malik decide sia giunto il momento di opporsi, di prendere in mano la situazione e di cambiare le cose... 
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Il profeta è un film duro, che non lascia vie di uscita, come al protagonista: la violenza e l'adeguamento alle logiche delinquenziali non possono essere evitate in certi contesti, ma al limite ribaltate a proprio vantaggio attraverso astuzia e lungimiranza. 
La regia, rigorosa e asciutta, non presenta virtuosismi, così come la scarna sceneggiatura, funzionale alla freddezza della narrazione, non fornisce allo spettatore alcuna folgorante battuta, rendendo ancor meno giustificabile le due ore e mezza di un film che, privo di un ritmo che possa sostenerle, sarebbe risultato migliore con una durata sensibilmente inferiore.
Eppure, in questo rigido schema realista, fanno eccezione le sequenze oniriche in cui Reyeb appare shakespearianamente a Malik, ricordandogli costantemente l'omicidio che lo ha iniziato alla nuova vita. Audiard ha il merito di trasformare un tema abusato del cinema a stelle e strisce, quello dei prison movie, in versione europea, creando un film meticcio che riproduce la torre di Babele multietnica, particolarmente evidente soprattutto in Francia, e che critica senza appello il sistema carcerario, di fatto una scuola di specializzazione per nuovi criminali, dopo la quale anche un semplice ladruncolo può diventare un boss.
Bravissimi Tahar Rahim, nella parte di Malik, e Niels Arestrup in quella di Luciani. Il protagonista, peraltro, nella sua evoluzione da ragazzo spaventato a boss, dimostra una grande capacità trasformistica e nella sequenza in cui si allena mimando allo specchio i movimenti per riuscire a compiere l'omicidio, sembra strizzare l'occhio al Travis-DeNiro di Taxi Driver (Scorsese 1976). Un secondo omaggio cinematografico va, inoltre, a 007 - Si vive solo due volte (naturalmente nella versione francese On ne vit que deux fois), nei cui titoli di testa Malik si imbatte mentre guarda la tv.
La consacrazione di Malik come nuovo leader degli arabi francesi è tutta nella scena finale che, sulle note della bella versione Mack the knife cantata da Jimmie Dale Gilmore, lo mostra uscire dal carcere dopo i sei anni di pena scortato da diverse auto, mentre passeggia con la moglie e il figlio dell'amico Ryad.
Il titolo si deve al soprannome che il boss arabo Brahim Lattrache dà a Malik quando di fronte a lui prevede che un cervo attraverserà la strada davanti alla loro auto ("chi cazzo sei, sei un profeta forse?"). Proprio il titolo consente un'ultima riflessione per l'ennesima scelta incomprensibile della distribuzione italiana, che ha modificato l'articolo indeterminato originale (Un prophète) in determinato, ma perché? Purtroppo il timore giustificato è che la risposta si nasconda dietro al celebre romanzo di Khalil Gibran Il profeta, che però naturalmente non ha nulla a che vedere con la pellicola di Audiard...

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