lunedì 13 marzo 2017

Il mestiere delle armi (Olmi 2001)

Senza alcun dubbio uno dei migliori film italiani degli ultimi vent'anni, per chi scrive il migliore in assoluto, e tra le più belle ricostruzioni storiche del Cinquecento italiano di sempre! 
Ermanno Olmi, come suo solito, sfiora la macrostoria, ma sceglie di raccontarne solo un dettaglio, la morte dell'ultimo capitano di ventura come segno di un cambiamento epocale nell'arte della guerra, intesa come principale attività del tempo, e poca importa che il figlio di quell'uomo sarebbe diventato uno dei più celebrati e potenti del XVI secolo, qui è cosa secondaria...
Il mestiere delle armi, infatti, è soprattutto la fine di un'era determinata dalla cavalleria pesante e dalla guerra di contatto, soppiantata dagli archibugi e dalle armi da fuoco.

Giovanni dalle Bande Nere, padre di Cosimo I de' Medici, è una vittima di quell'età e la conferma che ormai "non basta l'esser leali e gloriosi nel mestiere delle armi", cosicché il suo ferimento che avviene proprio mentre sta "scaramuzzando con i soldati di Frundsberg", colpito ad una gamba da un falconetto, piccolo cannone d'artiglieria leggera, è un avvenimento clamorosamente simbolico.

Giovanni e il ritratto postumo di F. Salviati (Palazzo Pitti)
Il contesto storico è quello della discesa in Italia dei lanzichenecchi di Carlo V, guidati da Georg von Frundsberg, che il 6 maggio dell'anno seguente arriveranno a Roma per il celeberrimo sacco che metterà in fuga papa Clemente VII de' Medici, peraltro cugino della madre di Giovanni, con l'altrettanto famosa corsa dal Palazzo Apostolico alla fortezza di Castel Sant'Angelo lungo il passetto di Borgo.
Come ricorda Machiavelli, Giovanni fu l'unico in grado di difendere gli stati italiani in quell'occasione, ma non bastò, anche perché gli stessi stati furono profondamente ambigui al passaggio delle truppe tedesche, a partire da Alfonso I d'Este che, secondo la versione accolta da Olmi, fu colui che fornì i falconetti ai lanzichenecchi.
È la storia di una sconfitta, gloriosa come solo le grandi disfatte possono esserlo, soprattutto se l'eroe di turno né è pienamente consapevole e l'affronta a viso aperto, come ascoltiamo dalla stesse parole di Giovanni (Hristo Jivkov) che detta a Pietro Aretino (Sasa Vulicevic) una lettera indirizzata a Francesco Maria della Rovere, comandante dell'esercito pontificio, in cui spiega "il parer mio è che essendo le truppe italiane non disciplinate, né avvezze ad osservare gli ordini non possano le nostre fanterie di appiedati sostenere l'urto in campo aperto delle schiere alemanne". L'unica speranza è quella di continuare con piccole scaramucce puntando a decimare le vettovaglie del nemico.
Viviamo le vicende del capitano fiorentino negli ultimi giorni di vita tra il campo di battaglia e il letto di morte, grazie ad un montaggio, di Paolo Cottignola, che parte dal 30 novembre 1526, giorno in cui il suo feretro venne esposto al centro della navata di Sant'Andrea a Mantova, come immortala una splendida inquadratura dall'alto del presbiterio della chiesa albertiana, e poi torna indietro con un flashback fino al 23 novembre e così in un'alternanza di momenti che ci porta prima al 25, giorno dello scontro nella battaglia di Govèrnolo e poi ai giorni di inutili cure che porteranno a chiudere la storia nella sua perfezione circolare, come sentenzia la voce off: "in Mantua, ultimo de novembre mille cinquecento e ventisei".
Oltre resta il passaggio dei lanzichenecchi, ormai liberi di muovere verso sud, e l'utopistica riflessione di chi pensò di poter arrestare il tempo: "a motivo della sinistra sorte capitata al signor Joanni de' Medici, i più illustri capitani e comandanti di tutti li eserciti fecero auspicanza affinché mai più venisse usata contro l'uomo la potente arma da fuoco".

Ogni inquadratura della pellicola resta scolpita nella memoria per forza dirompente e funzione evocativa. E Olmi dà spazio anche ai moltissimi dettagli densi di significato, come nel caso in cui la voce di Pietro Aretino (Sasa Vulicevic) ricorda come Frundsberg si portasse dietro un cappio d'oro per impiccare personalmente il pontefice, il segno più emblematico di una guerra economico-politica aizzata da questioni religiose.
Allo stesso modo ha una valenza simbolica enorme il momento della fusione dei cannoni che porteranno alla morte di Giovanni, il tutto ripreso con un'attenzione ai minimi particolari che vanno dalla preparazione delle munizioni alla prova su un'armatura, con l'accompagnamento dei dissonanti archi della colonna sonora di Fabio Vacchi.
Tutto funziona splendidamente, non solo regia e musica, ma anche la fotografia di Fabio Olmi, impeccabile sia negli esterni che nei bellissimi interni illuminati dalle candele; le scenografie di Luigi Marchione e i costumi di Francesca Sartori.  
Maria Salviati di Pontormo (Baltimora, Walters Art Gallery)
Il lavoro di Olmi sulla resa iconografica dei personaggi è davvero straordinario. Maria Salviati (Desislava Tenekedjieva), che vediamo sempre con il piccolo Cosimo, è perfettamente esemplata sui ritratti che ne fece Pontormo, come dimostra soprattutto il velo bianco che le ricopre costantemente la testa con andamento ondulato sulla fronte; Federico II Gonzaga (Sergio Grammatico), che sotto le mura di Curtatone viene apostrofato da Giovanni come "puttaniere infognato a cavalcar bagasce", è l'imbelle marchese che non si cura molto di quanto sta succedendo e che vediamo affondare il naso tra i seni della sua preferita o correre dietro al suo cagnolino, in un'altra immagine che rimanda inequivocabilmente al ritratto di Tiziano oggi a Madrid. 
Federico II Gonzaga di Tiziano (Madrid, Prado)
Proprio la scena nell'alcova di Federico II è un piccolo capolavoro: pochi secondi in cui Olmi realizza un'inquadratura che da sola renderebbe il film superiore alla media, con un grandangolare che gli permette di riprendere sia l'interno della stanza, sia il sopraggiungere dei servitori che dall'ambiente contiguo provano a far capire al signore di Mantova quanto sia grave la situazione senza successo, sorta di split screen naturale che tanto rimanda anche ai dipinti rinascimentali. 
Le meno note testimonianze figurative su Giovanni de' Medici, invece, lasciano più libertà sul protagonista magnificamente interpretato dal giovane Hristo Jivkov, allora appena ventiseienne e semplice studente di accademia d'arte drammatica a Sofia.
I costumi sono curati nei minimi dettagli, dalle ricche vesti femminili nobiliari, con gli sbuffi delle maniche delle pesanti vesti foderate e le lunghe gamurre sottostanti, a quelli degli uomini, arricchiti da cappelli decorati con placchette di metallo, visibili soprattutto nella sequenza del concerto da camera nella corte gonzaghesca.
Ovviamente, però, dominano la scena i dettagli delle armi bianche del tempo in una lunga rassegna di elmi come celate, barbute, morioni, ma anche armi in asta come alabarde e lance, e le tante armature brunite perché non luccicassero al calar della sera ("Gioannino ha fatto brunire le armi per non essere visto al buio").

La pellicola è intrisa di poesia e allo stesso tempo di pura materialità, secondo un binomio immancabile nel cinema di Olmi.
Il quotidiano di tutti i personaggi scorre tra questi due estremi: un'elegia della lentezza, che sottolinea le durezza della vita del tempo, ma in particolar modo delle truppe, costrette a sopravvivere al freddo, alla fatica, alla fame.
Il rapporto di Giovanni con la moglie, Maria Salviati, che chiama "carissima consorte", è condensato nei pochi scambi epistolari in cui le parla esclusivamente di questioni pratiche o diplomatiche da assolvere con il pontefice. L'altro ruolo femminile, ancora più rilevante, è quello dell'amante mantovana di Giovanni de' Medici (una brava e sensualissima Sandra Ceccarelli), in evidente difficoltà per le conseguenze di una passione che può rovinarla per sempre. Il suo monologo è tra i più belli del film e culmina nel bellissimo "mai del mio corpo vi feci carestia", segno che anche l'amore e il sesso possono essere consapevolmente distruttivi, e non per questo evitabili, allo stesso modo della morte cui va incontro il protagonista. Si uniscono a quella dichiarazione i timori per le voci dei concittadini e per il rischio di essere costretta a mendicare quando sarà ripudiata dal marito. A tal proposito è incredibilmente ricca di tensione la sequenza del suo ritorno a casa, con il marito che la umilia davanti al figlio e all'intera servitù nel completo silenzio, e nella quale sono gli sguardi a descrivere i sentimenti provati dai due protagonisti fino al sonoro schiaffo che sa di pubblico ludibrio.
Anche la religiosità assume toni più materiali e persino blasfemi, quando alcuni soldati, entrati in una chiesetta di campagna vedono un grosso crocifisso ligneo ripetendo che quello è il Cristo dei poveri, il Cristo di chi ha fame e di ha freddo, in forte accento lombardo ("là el Cristo dei poarec, per chi che ga' fam e chi che gà frec"), finché uno sentenzia che "piuttost' che crepa' dal frec' abbrucia cristi e poi Madone", in una delle immagini più vivide dell'intera pellicola, e che si trasformerà in pura poesia quando ciò che resta di quello stesso crocifisso verrà trascinato lungo i campi innevati da un predicatore al passaggio dei soldati.

La battaglia di Govèrnolo è magnifica: la luce dell'alba, i cavalli e le armature, ma soprattutto le foreste di lunghissime lance che tanto ricordano le incisioni d'epoca che raffigurano l'equipaggiamento dei lanzichenecchi; e lo stesso valga per il sonoro, in cui spicca il rumore degli zoccoli dei cavalli, dei tamburi e del vociare delle truppe. 
Le immagini delle cure a Giovanni rappresentano un ennesimo ed eccezionale brano di cinema: l'arrivo del cerusico ebreo Abraham, le sanguisughe che non attecchiscono ("le mignatte si rifiutano di succhiare"), il peggioramento ("i medici fanno il caso pericolo di morte"), e soprattutto l'amputazione ("non resta che tòr via la gamba) ripresa con ritualità e fedeltà documentaristica, che indugia lentamente sugli strumenti chirurgici e sul corpo martoriato del protagonista.
La consapevolezza della propria fine porta Giovanni a guardare Federico II Gonzaga, che ora lo ospita, con un semplice "vogliatemi bene quando sarò morto", e proprio durante i deliri dell'agonia, peraltro, vediamo gli unici momenti di felicità di Giovanni narrati dal film. Con l'ennesimo ricorso all'analessi Olmi ci mostra, infatti, il torneo ambientato nel cortile della Cavallerizza del Palazzo Ducale di Mantova, dove Giovanni ha conosciuto la sua amante e alcuni attimi dei loro amplessi successivi (e qui l'unico errore di un film pressoché perfetto, con il dettaglio dell'anacronistico vaccino antivaiolo sulla spalla dell'attore Hristo Jivkov).
Un ultimo accenno alle location: oltre a quelle mantovane già citate, anche il castello di Ferrara "interpreta" se stesso come residenza di Alfonso d'Este, mentre il palazzo di Aloisio Gonzaga, in cui viene ricoverato Giovanni, è in realtà Palazzo Barbò a Torre Pallavicino (Bergamo), e la sua stanza è la bellissima sala delle Grottesche (in realtà affrescata da Bernardino Campi alla metà del XVI secolo); la porta di Curtatone è la Rocca Sforzesca di Soncino (Cremona); gran parte degli esterni, infine, sono stati girati in Bulgaria.
Un film imperdibile per chi ama la storia e il buon cinema, a cui i David di Donatello, mutuando ancora la splendida battuta di Sandra Ceccarelli, "non fecero carestia" e resero giustizia conferendogli i premi per miglior film, regia, produzione, sceneggiatura, fotografia, scenografia, costumi, montaggio, colonna sonora... capolavoro assoluto!

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