Se neanche questa volta l'Academy Award consegnerà l'agognata statuetta a Leonardo DiCaprio (e la sfida con Michael Fassbender non ha un esito così scontato), l'attore statunitense non saprà più quale altro personaggio interpretare, ma se la otterrà, accadrà per un film in cui recita pochissime battute, e per un attore che della parola ha sempre fatto la sua forza, sarebbe davvero paradossale.
Alejandro González Iñárritu, dopo il bellissimo Birdman (2014), gira tutt'altro tipo di film, e passa dal metaspettacolo dell'anno scorso ad un'avventura che va a pescare nella storia più buia degli Stati Uniti d'America, in un piccolo episodio di guerriglia tra cacciatori di pelli e indiani.
1823. Sulle rive del Missouri un manipolo di 45 uomini, dopo una lunga battuta di caccia, viene affrontato dagli indiani Arikara e ridotto a dieci unità. Tra questi ci sono Hugh Glass (DiCaprio) e il figlio mezzosangue, Hawk, avuto dalla compagna indiana, uccisa molti anni prima da soldati americani. La vicenda del gruppo verrà ulteriormente complicata dal ferimento di Glass da parte di un enorme grizzly. Il capitano Andrew Henry (Domhnall Gleeson), dopo aver fatto ricucire per quanto possibile le sue ferite, sarà costretto ad affidare a pochi uomini il corpo di Glass.A prendersi questa responsabilità, oltre a Hawk, saranno per motivi diversi il giovane Jim Bridger (Will Poulter) e il più cinico di tutti, John Fitzgerald (un Tom Hardy eccezionale), che riuscirà ad abbandonarlo al suo destino utilizzando le bassezze più turpi. Glass, però, non si arrenderà così facilmente...
Il regista messicano realizza un'altra pellicola che colpisce in pieno il bersaglio, se per bersaglio intendiamo però soprattutto l'Academy. Stavolta, molto più che con Birdman, il film lascia la sensazione di essere stato costruito più per ottenere i premi che per raccontare qualcosa.
A dimostrarlo, in primis, una modifica sostanziale rispetto all'omonimo romanzo di Michael Punke di cui il film costituisce l'adattamento: l'aggiunta del figlio del protagonista, inesistente nel libro, è quantomai significativa e ricorre al modo più semplice per raggiungere i sentimenti del pubblico.
Stilisticamente, la prima cosa che salta all'occhio nella bella regia di Iñárritu è la forte consonanza col cinema di Terrence Malick e, complice anche il tema, soprattutto con il bellissimo The New World - Il nuovo mondo (2005). L'arguta differenziazione del film di Iñárritu, però, è che alla poesia dell'illustre precedente unisce azione e sangue, ma soprattutto il personaggio epico di Glass e il tema della vendetta, rendendo la sua pellicola, anche in questo caso, molto più appetibile al grande pubblico.
Tra i momenti più poetici di Revenant si notino le splendide inquadrature dal basso verso gli alti fusti degli alberi, tra cui si scorge il cielo; le gocce su un albero; i lapilli di un fuoco crepitante; le foglie intrappolate dal ghiaccio; le riprese dei bisonti e dei cervi; le tante visioni di Glass del suo passato, della moglie e del figlio; il tutto accompagnato dalla suadente colonna sonora di un gigante come Ryuichi Sakamoto.
Rimarrà nella storia del cinema la sequenza della lotta tra Glass-DiCaprio e la grande orsa che lo dilania senza ucciderlo, riducendolo in fin di vita. Lo scontro, che in sala pietrifica lo spettatore, è evidentemente un capolavoro di computer grafica, ma mentre lo si vede appare una ripresa davvero realistica. Che il momento sia epico lo si capisce sin dall'apertura della sequenza, in cui la mdp è inserita in una fossa del terreno, in un'inquadratura che aumenta inevitabilmente il pathos: quello che sembra solo un escamotage visivo, nel corso della scena diventa reale, poiché i due protagonisti finiscono proprio lì in basso.
Solo per dare un altro saggio dell'alto livello registico, si pensi anche alla sequenza nella quale Glass strisciando avanza verso il corpo del figlio, steso nella neve, e una volta raggiunto si gira verso la mdp: il suo respiro appanna lo schermo e quel grigio compatto diventa l'occasione per un'ellissi che si completa con l'inquadratura del cielo freddo e dello stesso colore.
Eccezionale anche il lavoro fatto sui dettagli, a cominciare dalle armi: i cacciatori all'inizio del film sparano con delle carabine, di cui vediamo lo scodellino per la polvere da sparo, che gli uomini tengono nelle apposite fiasche legate in vita o appese al collo per poter ricaricare; la pietra focaia ben chiusa nella morsa del cane e il lento e scomodo sistema di caricamento anteriore con un singolo proiettile per volta.
Il film non è certo un film di lunghi dialoghi, ma la sceneggiatura, che il regista ha scritto insieme a Mark L. Smith, funziona e spesso fa naturalmente ricorso all'epopea western. L'odio tra Glass e Fitzgerald, per esempio, è anticipato da una battuta che il personaggio di DiCaprio rivolge al suo antagonista che lo pungola, che potremmo facilmente immaginare pronunciata da John Wayne: "Per quanto mi riguarda il mio posto è proprio qui, dalla parte giusta del fucile".
Così il capo degli indiani Arikara, alla ricerca della figlia, dice ai francesi "Ci avete rubato tutto", sicuramente una frase adatta in un film western classico, ma qui data la cronologia alta (siamo negli anni venti), appare quantomeno troppo anticipata. Infine, Fitzgerald si lascia andare ad un commento sui pellerossa - "questi indiani non sono mai morti, anche quando lo sembrano" - il cui tono non solo ricorda l'odio di tanti eroi del far west verso gli indiani (penso di nuovo a John Wayne, nella versione Ethan Edwards di Sentieri selvaggi - Ford 1956), ma anche quello usato contro i nemici delle guerre più recenti degli Stati Uniti, su tutti, fosse solo per la grande produzione cinematografica a tema, i vietnamiti.
Nonostante le indubbie qualità del film, però, va detto che il personaggio di Hugh Glass sconfina davvero eccessivamente nel "supereroismo" e, a differenza di Birdman, in cui i poteri erano proiezioni psicotiche di un divo sul viale del tramonto, attivando nello spettatore la sospensione del giudizio, stavolta Iñárritu pretende di mostrarcele come realistiche e questo ci convince molto meno.
DiCaprio non si cuce da solo come Stallone in Rambo (Kotcheff 1982), ma sembra davvero una sua evoluzione quando lo vediamo accendere un fuoco con una pietra e cauterizzare le proprie ferite; pescare a mani nude; sfuggire, ancora malconcio, alle frecce degli indiani, immergendosi qua e là nelle acque del Missouri; superare le rapide del fiume e una caduta da una rupe degna della strega di Biancaneve (1937), atterrando su un albero, per poi passare la notte all'interno della carcassa del proprio cavallo, accuratamente sviscerato e che, a differenza sua, a quel salto non è proprio riuscito a sopravvivere. Questo dettaglio "embrionale", inoltre, ricorda molto la scena de L'impero colpisce ancora (Keshner 1980), in cui Han Solo salvava dall'assideramento Luke Skywalker inserendolo nel corpo di un tantaun, mammifero del pianeta ghiacciato di Hoth della saga di George Lucas.
In tutto questo Glass trova il modo di salvare una donna indiana che sta per essere violentata da alcuni francesi, un gesto che insospettabilmente gli tornerà utile più avanti, e che per assurdità ricorda la simile scena di Pulp Fiction (Tarantino 1994) in cui Bruce Willis-Butch, appena liberatosi, tornava indietro per salvare da una violenza sessuale il suo sfortunato "compagno" Marcellus Wallace, con la differenza che in quel caso il parossismo era parte integrante del soggetto, mentre qui invece stona non poco, data l'assenza di toni parodistici o grotteschi.
Persino Glass, però, non può far tutto da solo, cosicché risulterà basilare l'aiuto di un indiano Pawnee, a cui i Sioux hanno ucciso la famiglia e dal quale impara che "la vendetta è nelle mani di Dio", una frase che parafrasa l'esergo del romanzo di Punke tratto dalla Lettera ai Romani di san Paolo, che però il protagonista di Revenant interpreta in maniera decisamente personale...
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