Bennet Miller ha adattato l'autobiografia di Mark Schultz, campione olimpico di lotta a Los Angeles nel 1984, scritta nel 2014 in contemporanea con la sceneggiatura (tra le due ci sono alcune sensibili differenze che hanno indisposto l'autore e protagonista della storia - approfondisci su History vs Hollywood), che racconta la vita di Mark e di suo fratello David in Pennsylvania, a Foxcatcher, la tenuta di John Eleuthère du Pont, il ricchissimo appassionato di lotta "ornitologo filatelico e filantropo", come lui stesso si definisce in una sequenza del film.
Erede della dinastia du Pont, la famiglia di origine francese che sin dall'Ottocento si affermò come una delle più importanti degli Stati Uniti grazie ad un'azienda di polvere da sparo, John, che non condivideva la passione di sua madre per i cavalli, ma al cui consenso non riusciva a rinunciare, decise di sfruttare le ingenti finanze per sovvenzionare lottatori statunitensi con l'obiettivo di diventare il loro mentore.
Per la pellicola, dalla regia priva di particolari acuti, che pure ha vinto la palma d'oro a Cannes, non è il caso di scomodare il termine capolavoro, ma ha nelle interpretazioni le sue note migliori: Steve Carell nella parte di John du Pont è eccezionale e, trasfigurato dal trucco che lo ha aiutato a modificare i tratti somatici, ha pienamente dimostrato di poter essere un attore a tutto tondo e non solo da commedie brillanti; ma sono bravissimi anche Channing Tatum nel ruolo di Mark Schultz e Mark Ruffalo in quello di David Schultz; il cast è poi completato da Sienna Miller nei panni della moglie di quest'ultimo e dall'eterna Vanessa Redgrave in quelli della signora du Pont.
Il film, che può essere definito una sorta di thriller psicologico-sportivo, si sofferma piuttosto che sull'azione sportiva sull'influenza che John ha esercitato su Mark, un'influenza che varca i confini del plagio: il giovane atleta viene affascinato dall'ambiente, dalla ricchezza, da frasi carismatiche e conservatrici come "sono un patriota e voglio vedere questo Paese risorgere", cosicché in breve tempo si ritrova a considerarlo come un secondo padre, quel padre mai avuto poiché i suoi genitori avevano divorziato quando lui aveva solo due anni. John, nella sua volontà autocelebrativa (si dà come soprannome "Eagle"), scrive i discorsi a Mark, commissiona un servizio fotografico con lui, e arriva persino a far girare un documentario su se stesso, in cui si considera immodestamente un grande allenatore, mentore e punto di riferimento dei suoi ragazzi.
Mark si allenerà a Foxcatcher fino alle Olimpiadi di Seul del 1988, ma il rapporto con John si deteriorerà già prima (il perché resta poco spiegato dal film, che sembra adombrare avance sessuali), e lo stesso accadrà anche con David, che proprio durante le riprese del documentario paleserà tutta la sua resistenza a dover rilasciare un'intervista in cui le battute sono già decise dal committente e protagonista del documentario stesso, che ama parole come "eccellente, intensità, dominio".
Buona la colonna sonora che contribuisce in maniera decisiva all'atmosfera disturbante che aleggia attorno a Foxcatcher, e nella quale oltre alle musiche originali di Rob Simonsen, coadiuvato da West Dylan Thordson e Mychael Danna, spiccano pezzi come Sealion di Joshua L. Pearson, Für Alina di Arvo Pärt & Alexander Malter, ma soprattutto This Land Is Your Land di Bob Dylan e Fame di David Bowie, quest'ultima inserita proprio nella sequenza in cui John illustra la sala dei trofei du Pont...
Buona la colonna sonora che contribuisce in maniera decisiva all'atmosfera disturbante che aleggia attorno a Foxcatcher, e nella quale oltre alle musiche originali di Rob Simonsen, coadiuvato da West Dylan Thordson e Mychael Danna, spiccano pezzi come Sealion di Joshua L. Pearson, Für Alina di Arvo Pärt & Alexander Malter, ma soprattutto This Land Is Your Land di Bob Dylan e Fame di David Bowie, quest'ultima inserita proprio nella sequenza in cui John illustra la sala dei trofei du Pont...
Una riflessione, infine, sul sottotitolo italiano, Una storia americana... sia detto tra le righe, è una moda decisamente migliore di quella di tradurre in maniera assurda i titoli principali, ma non si riesce proprio a trovare di meglio di un'espressione così banale e che, oltre al film di Jean Luc Godard (1966), dà il titolo a quello di Andrew Jarecki (2003), ad un libro di Philip Roth e persino ad un paio di recenti mostre, quella del fotografo Gordon Parks (Milano 2013) e di Andy Warhol (Pisa 2014)?
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