Merita un accenno quello che venne fatto in Italia, dove la pellicola giunse solo nel 1974, distribuita in una versione ridotta di circa cinquanta minuti, priva di diversi brani dei dialoghi e della lunga parte iniziale, ambientata sulla Terra e che, pur se assente nell'omonimo romanzo del fisico polacco Stanislaw Lem, era ritenuta basilare dallo stesso Tarkovskij, che per questo chiese invano di togliere il suo nome dai titoli di testa nelle proiezioni nel nostro Paese.
All'edizione italiana, peraltro, contribuì in maniera determinante anche Dacia Maraini, che riadattò il testo con l'obiettivo di avvicinarlo a qualunque tipo di pubblico, riducendo la distanza intellettuale dalla gente, ma di fatto snaturando un film intriso di filosofia, di letteratura e di arte. In esso vengono, infatti, citati Cervantes, Dostoevskij, Goethe, Tolstoj, il mito di Sisifo e tanto altro.
Per chi lo volesse vedere o rivedere, quindi, si consiglia di procurarsi la bella edizione del 2002, restaurata e con l'aggiunta delle parti mancanti del film sottotitolate, ma si prega di non confondere tale edizione con il remake di Steven Soderbergh dello stesso anno, che ha ben poco a che fare col capolavoro di trent'anni prima.
In un futuro imprecisato Kris Kelvin (Donatas Banionis) è uno psicologo che deve raggiungere la base orbitante intorno a Solaris, un oceano nello spazio costituito da una strana sostanza colloidale che, secondo gli studi, sarebbe una sorta di grande massa cerebrale pensante. Il fenomeno è noto da tempo, come fa comprendere la lunga sequenza introduttiva, in cui a casa di Kris, dove ci sono anche i suoi genitori (Nikolai Grinko, Olga Barnet), è ospite Henri Berton (Vladislav Dvoržeckij), che tempo prima ha vissuto l'esperienza "solaristica" riportata in un rapporto che da lui prende il nome, in cui si parla di giardini e alberi di spuma e di un bambino alto quattro metri che lui insiste di aver visto con i propri occhi, ma tra lo scetticismo della comunità scientifica. Una volta arrivato sulla base, Kris incontra i due astronauti sopravvissuti, Snauth (Jüri Järvet) e Sartorius (Anatolij Solonicyn), e vede i filmati lasciati da Gibarian (Sos Sargsyan), che invece si è suicidato. Anche a Kris capiterà qualcosa di simile a quanto già accaduto a Berton, ma lui si troverà accanto Hari (Natal'ja Bondarčuk), la moglie morta dieci anni prima e per la cui scomparsa si sente ancora responsabile.
È la conferma che la caratteristica principale di Solaris sia la capacità di rielaborare i desideri, la memoria, e di dargli sostanza materializzando dei "fantasmi", degli "ospiti", costituiti da neutrini e non da atomi.
La figura di Hari nell'economia della storia ha un'importanza ben più rilevante che nel romanzo e il suo impatto nella cinematografia successiva è facilmente riscontrabile in un capolavoro della fantascienza come Blade Runner (Scott 1982). Hari rivendica le sue emozioni, che sono vere ("soffro come voi [...] sono un essere umano, ma per te sono solo una cosa"), in maniera del tutto simile a Rachel, il replicante interpretato da Sean Young nel capolavoro di Ridley Scott e, come lei, chiede al suo uomo di aiutarla a capire chi sia e da dove venga. Allo stesso tempo, la tangenziale futuristica che si vede alla fine dell'introduzione terrestre (in realtà Tokyo), fa venire alla mente non solo Blade Runner, ma ovviamente anche Il quinto elemento (Besson 1997), nonché, come immancabile precedente e inevitabile fonte d'ispirazione, anche Metropolis (Lang 1927).
Tante altre, però, le sequenze che per poesia ed estetica meritano di diritto di entrare nella storia del cinema - accompagnate dall'avvolgente colonna sonora di Èduárd Nikoláevič Artém’ev, coronata dal motivo portante del Preludio al Corale in Fa minore (Ich Ruf Zu Dir Herr Jesus Christ BWV639) di Bach -, dalla spuma magmatica di Solaris alla levitazione di Kris e Hari all'interno della biblioteca della base, al centro della quale Hari viene interrogata dagli altri due astronauti come una strega del Medioevo o del Rinascimento (con una candela che ricorda il cinema di Dreyer).
Proprio la sala della biblioteca permette a Tarkovskij, inoltre, di usare l'arte come veicolo di significati: non è certo un caso che l'ambiente sia arredato con riproduzioni di opere celeberrime, tra cui si riconoscono la Venere di Milo, i Cacciatori nella neve di Pieter Brueghel il Vecchio, una vetrata con l'Ultima Cena, ma soprattutto un busto di Socrate, che peraltro compare anche nella stanza di Kris sulla Terra e che, in un film incentrato sulle questioni gnoseologiche, appare come un evidente riferimento all'idea che l'unica certezza umana sia quella di "sapere di non sapere". Il regista russo sembra rievocare la storia dell'arte anche con alcune inquadrature di Hari e della madre di Kris, trattate come se fossero ritratti, con i personaggi e la mdp immobili. Le due attrici, peraltro, almeno a chi scrive, sembrano ricordare celebri dipinti del passato: Natal'ja Bondarčuk La muta di Raffaello (Urbino, Galleria Nazionale delle Marche), e Olga Barnet, ripresa con uno sfondo paesistico, Lady Beampfylde di Joshua Reynolds (Londra, Tate Modern).
È a Kris, infine, che spettano le frasi più cupe del film: "provando pena ci svuotiamo"; "la sofferenza dà alla vita un'aria cupa e sospetta"; "perché andiamo a frugare l'universo quando non sappiamo niente di noi stessi?" "Una domanda vuol dire sempre desiderio di conoscere e per conservare le semplici verità umane ci vogliono i misteri".
È la conferma che la caratteristica principale di Solaris sia la capacità di rielaborare i desideri, la memoria, e di dargli sostanza materializzando dei "fantasmi", degli "ospiti", costituiti da neutrini e non da atomi.
La figura di Hari nell'economia della storia ha un'importanza ben più rilevante che nel romanzo e il suo impatto nella cinematografia successiva è facilmente riscontrabile in un capolavoro della fantascienza come Blade Runner (Scott 1982). Hari rivendica le sue emozioni, che sono vere ("soffro come voi [...] sono un essere umano, ma per te sono solo una cosa"), in maniera del tutto simile a Rachel, il replicante interpretato da Sean Young nel capolavoro di Ridley Scott e, come lei, chiede al suo uomo di aiutarla a capire chi sia e da dove venga. Allo stesso tempo, la tangenziale futuristica che si vede alla fine dell'introduzione terrestre (in realtà Tokyo), fa venire alla mente non solo Blade Runner, ma ovviamente anche Il quinto elemento (Besson 1997), nonché, come immancabile precedente e inevitabile fonte d'ispirazione, anche Metropolis (Lang 1927).
Tante altre, però, le sequenze che per poesia ed estetica meritano di diritto di entrare nella storia del cinema - accompagnate dall'avvolgente colonna sonora di Èduárd Nikoláevič Artém’ev, coronata dal motivo portante del Preludio al Corale in Fa minore (Ich Ruf Zu Dir Herr Jesus Christ BWV639) di Bach -, dalla spuma magmatica di Solaris alla levitazione di Kris e Hari all'interno della biblioteca della base, al centro della quale Hari viene interrogata dagli altri due astronauti come una strega del Medioevo o del Rinascimento (con una candela che ricorda il cinema di Dreyer).
Proprio la sala della biblioteca permette a Tarkovskij, inoltre, di usare l'arte come veicolo di significati: non è certo un caso che l'ambiente sia arredato con riproduzioni di opere celeberrime, tra cui si riconoscono la Venere di Milo, i Cacciatori nella neve di Pieter Brueghel il Vecchio, una vetrata con l'Ultima Cena, ma soprattutto un busto di Socrate, che peraltro compare anche nella stanza di Kris sulla Terra e che, in un film incentrato sulle questioni gnoseologiche, appare come un evidente riferimento all'idea che l'unica certezza umana sia quella di "sapere di non sapere". Il regista russo sembra rievocare la storia dell'arte anche con alcune inquadrature di Hari e della madre di Kris, trattate come se fossero ritratti, con i personaggi e la mdp immobili. Le due attrici, peraltro, almeno a chi scrive, sembrano ricordare celebri dipinti del passato: Natal'ja Bondarčuk La muta di Raffaello (Urbino, Galleria Nazionale delle Marche), e Olga Barnet, ripresa con uno sfondo paesistico, Lady Beampfylde di Joshua Reynolds (Londra, Tate Modern).
Un discorso a parte merita la sceneggiatura, scritta dal regista insieme a Fridrikh Gorenštejn e capace di delineare l'atteggiamento dei diversi personaggi con frasi di grande impatto e di assoluto valore letterario e filosofico. Così Sartorius che dice a Kris che "l'unica cosa che conta è il dovere [...] il dovere verso la verità", dimostra di essere il più rigido dei due astronauti, ben ancorato all'obiettivo scientifico della missione, tanto da essere l'inventore di una macchina finalizzata a bombardare l'oceano Solaris per annichilire i neutrini che costituiscono gli "ospiti" (riprendendo la teoria di Carl Anderson degli anni '30 sull'antimateria). Snauth, invece, se non scanzonato, appare quantomeno alternare i toni delle sue riflessioni: "magari fossi pazzo, sarebbe una liberazione", dichiara raccontando a Kris ciò che è accaduto lì; "come tutte le cose di genio è semplice", dice mostrando l'invenzione di Gibarian che riproduce il rumore delle foglie con della carta tagliata a fettucce posta davanti ad un aeratore; "noi abbiamo bisogno di uno specchio [...] l'uomo ha bisogno solo dell'uomo", riassume la necessità umana riprodotta dal cervello senziente di Solaris; riprende Kris che per stare con Hari vorrebbe rimanere nello spazio, con un perentorio "non puoi trasformare un problema scientifico in una storia d'amore", e, infine, commenta la sete di conoscenza sentenziando che "le persone più felici sono quelle che non si sono mai interessate a queste maledette questioni".
È a Kris, infine, che spettano le frasi più cupe del film: "provando pena ci svuotiamo"; "la sofferenza dà alla vita un'aria cupa e sospetta"; "perché andiamo a frugare l'universo quando non sappiamo niente di noi stessi?" "Una domanda vuol dire sempre desiderio di conoscere e per conservare le semplici verità umane ci vogliono i misteri".
Un film bellissimo, che alterna il colore e il bianco e nero in maniera continua e, per dirla con Enrico Ghezzi, fatto di diversi stati di materia, solido, acquoso e gassoso. Una fantascienza in cui l'universo è allegoria del subconscio e con un finale indimenticabile che sembra andare in una direzione, ma di cui un semplice e veloce movimento di macchina ci rivela la reale natura...
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