giovedì 23 aprile 2015

Narciso nero (Powell - Pressburger 1947)

Tratto dall'omonimo romanzo del 1939, scritto dall'inglese Margareth Rumer Godden, Black Narcissus è indubbiamente uno dei vertici raggiunti dalla coppia Michael Powell e Emeric Pressburger, che dal 1940 al 1972 realizzò ben diciannove film.
La pellicola merita di diritto un ruolo nella storia del cinema, per l'uso espressivo del colore che, alla pari di quanto avviene in un altro capolavoro come Johnny Guitar (Nicholas Ray 1954), va considerato un elemento imprescindibile, senza il quale la storia perderebbe gran parte del suo fascino. È anche per questo che il nome del direttore della fotografia, Jack Cardiff, andrebbe ricordato al pari di quello dei due registi, così come, seppure ad un gradino appena più in basso, va menzionato quello di Alfred Jung, lo scenografo che ricostruì una fetta di India in studio.

Leggi la trama:
Madre Clodagh (Deborah Kerr), una suora servita missionaria a Calcutta, viene inviata a Mopu, una località sull'Himalaya a tremila metri d'altezza, per fondare, insieme ad altre quattro consorelle, il convento di Santa Fé con una scuola e un ospedale. Il nuovo istituto sarà ospitato in una grande casa donata all'ordine dal generale, il sovrano del luogo, un tempo utilizzata come residenza delle sue numerose mogli.
A gestire il passaggio del palazzo alle religiose, restano Ayah (May Hallatt), una servitrice, e soprattutto Dean (David Farrar), agente del generale, il cui fascino non lascia indifferenti alcune delle suore, soprattutto Ruth (Kathleen Byron), nonostante il suo abbigliamento alla David Crockett culminante in un paio di pantaloni corti che, visti oggi, ne rendono difficilmente comprensibile il sex appeal. I due, peraltro, non credono che le suore potranno resistere a lungo a Mopu e che prima della stagione delle piogge torneranno a Calcutta.
Tra gli autoctoni vanno annoverati anche il "giovane generale" (Sabu), l'erede al trono che partecipa alle lezioni della scuola della missione, e la bellissima Kanchi (Jean Simmons), una conturbante fanciulla di modestissime origini che catalizza le attenzione del principe.
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Powell e Pressburger dimostrano di saper raccontare una storia in maniera sopraffina, soprattutto attraverso i movimenti della mdp, mai banali, che come mezzi espressivi superano di gran lunga le parole della sceneggiatura. Un esempio è già nel racconto iniziale, in cui allo spettatore viene illustrato l'impervio luogo posto a picco su un burrone, con un dolly che taglia in diagonale la scena in maniera saliente fino ad arrivare alle sale interne del palazzo.
Un altro caso è la prima apparizione della protagonista, Clodagh, che non ci viene mostrata subito: la mdp segue un bambino che la va a chiamare mentre insegna in classe e dove la vediamo di spalle, dallo stesso punto di vista con cui viene inquadrata in tutta la passeggiata appena successiva, che la conduce al cospetto della madre superiora che l'ha mandata a chiamare... solo qui finalmente ammiriamo, cinto dal soggolo monacale, il volto della bellissima Deborah Kerr.
Che nulla sia lasciato al caso e che ogni elemento sia significante lo dimostra anche il grande tavolo del refettorio, a croce latina e inquadrato dall'alto per evidenziarne ancor meglio la conformazione.
Una delle immagini più suggestive dell'intero film, però, coincide con la prima volta in cui Clodagh suona la campana del convento: l'inquadratura della suora sotto il piccolo campanile ad arco, separato dalla struttura principale e posto proprio su un burrone, è da brividi, brividi che quel luogo offrirà almeno un'altra volta durante il film, con Clodagh e Ruth protagoniste.
La sequenza in cui le due suore si scontrano sull'orlo dell'abisso, non può non ricordare il crepaccio della strega in Biancaneve e i sette nani Disney (1937), ma ancor di più un altro celeberrimo campanile cinematografico: quello de La donna che visse due volte (1958), in una scena che, confrontata con quella di Powell e Pressburger, dà la sensazione che Alfred Hitchcock avesse ben presente questo precedente girato dai due cineasti inglesi. Che "il maestro del brivido" fosse amico di Michael Powell è noto, cosicché le reciproche influenze appaiono ancora più naturali: Narciso nero, come accade a tanti grandi film, travalica il genere di partenza, in questo caso il melodramma, passando per momenti di suspense, come quello appena accennato, fino a sconfinare nell'horror. Ruth che sveste i panni della monaca divenendo una donna dallo sguardo invasato, infatti, può ricordare non solo il Norman Bates di Psycho (1958) e tutte le sue derivazioni (comprese quelle kubrickiane di Jack Torrance in Shining - 1980, e di soldato "Palla di lardo" in Full metal jacket - 1987), ma sembra essere davvero posseduta come Linda Blair ne L'esorcista (Friedkin 1973), Carla Gravina ne L'anticritsto (De Martino 1974) e, persino somigliante, al Satana interpretato da Rosalinda Celentano in The Passion (Gibson 2004). È la stessa Ruth, infine, che getta un bicchiere di latte che per intensità è inferiore solo a quello famosissimo ancora di Hitchcock ne Il sospetto (1941).
È proprio la trasformazione della giovane suora, peraltro, ad offrire l'acme dello sfruttamento delle potenzialità espressive del tecnhicolor. Ruth, in una sequenza da manuale di cinema, guarda Clodagh con atteggiamento di sfida mentre si trucca le labbra con il rossetto: le sue labbra pallide che diventano vermiglie rappresentano uno dei momenti di maggiore tensione dell'intero film.
Tutto, però, è finalizzato ad aumentare il pathos, a cominciare da un vento che spira incessantemente e solleva i veli della suore (le foto di scena testimoniano l'utilizzo di grandi ventilatori per ottenere tale effetto), passando per i giochi di luci ed ombre acuiti dalle jali, le finestre a grate traforate tipiche dell'architettura indo-islamica, che caratterizzano il palazzo di Mopu, fino ad arrivare al bicchiere di latte già citato, chiaro simbolo di purezza allontanata da Ruth insieme alla veste monacale.
La carica erotica della pellicola è indubbia e il titolo stesso, che si riferisce al nome del profumo che il giovane generale spande con il suo fazzoletto - e Jean Simmons-Kanchi che lo annusa è incredibilmente sensuale -, ne è un esempio evidente. Purtroppo, però, la valenza del proibito, data in primo luogo dall'attrazione palpabile delle suore per Dean, viene profondamente compromessa dall'edizione italiana, che nel doppiaggio cambia spesso il senso delle battute recitate dagli attori. La censura così trasforma la dichiarazione di Ruth, che in inglese dice "ti amo" a Dean, in un più inoffensivo "resto qui", e quando lo accusa con gelosia di amare Clodagh causando la rabbia dell'attendente del generale, il verbo viene sostituito con "perdonare", cosicché la negazione di Dean diventa "io non perdono nessuno", recitato con una furia che le parole usate ovviamente non giustificano... Per chi volesse rivederlo, quindi, si impone di selezionare la lingua originale, magari accompagnata dai sottotitoli in italiano che ne evidenziano le modifiche volute dalla censura!

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