mercoledì 16 aprile 2014

Melancholia (von Trier 2011)

Secondo film della trilogia della depressione (dopo Antichrist e prima di Nymphomaniac), è il film millenaristico di Lars von Trier. Il suo pessimismo cosmico questa volta è davvero profondo e totalizzante.
Un'opera sul senso della vita, al pari di The Tree of Life firmato nello stesso anno da Terrence Malick. Il confronto tra le due opere appare doveroso, per la loro contemporaneità, per la tematica filosofica scelta e per la forte tendenza all'astrazione, che in entrambi i casi, peraltro, viene alternata ad una storia di fondo che fa da pretesto per le speculazioni ben più generali che vengono affrontate (trailer).
Gli splendidi risultati raggiunti da Malick, però, non sono gli stessi di von Trier che, come in quasi tutta la sua carriera, mira a disturbare il suo pubblico e, stavolta più che mai, ci riesce pienamente.
Eppure la parte iniziale di Melancholia è indubbiamente un capolavoro, formalmente perfetto e visionario: sulle note del Preludio di Tristano e Isotta di Richard Wagner (che a tratti fanno supporre, almeno a chi scrive, che ad esse si rifece Bernard Hermann quando compose le musiche per Vertigo di Hitchcock), si alternano immagini bellissime in slow motion, che evidenziano l'ampia cultura pittorica e cinematografica del regista. La sposa protagonista, Justine (Kirsten Dunst), con indosso il vestito da cerimonia, prova ad avanzare ma è letteralmente "radicata" al terreno e non riesce a camminare; inoltre la vediamo galleggiare in acqua come l'Ofelia dipinta dal preraffaellita John Everett Millais (1851-52), evidentemente ben nota a von Trier, che in questo folgorante inizio aggiunge anche l'immagine del paesaggio innevato dei Cacciatori nella neve di Brueghel (già mostrato da Tarkovskij in Solaris e ne Lo Specchio), per poi dimostrare anche la sua indubbia cultura cinematografica con due begli omaggi a Kubrick. 
Justine come l'Ofelia di John Everett Millais
Nel primo mostra un giardino inquadrato in campo lungo e in prospettiva centrale, entrambe caratteristiche immancabili del cinema del regista newyorchese (si pensi soprattutto ai giardini di Barry Lyndon), nel secondo, in cui vediamo un pianeta (il Melancholia che dà il titolo al film) che si avvicina alla Terra, non possiamo non pensare a 2001. Odissea nello spazio.
Finita questa parte, però, inizia il film vero e proprio, in cui veniamo improvvisamente catapultati - complice una camera a mano a cui von Trier dice di non voler rinunciare per amor di realismo, ma che dopo la bella forma dimostrata nei primi minuti, si avrebbe tanta voglia di fissare da qualche parte -, nel ricevimento di un matrimonio a cui gli stessi protagonisti, la Justine del prologo e Michael, arrivano in limousine ma in colpevole ritardo. La sorella di lei, Claire (Charlotte Gainsbourg), e suo marito John (Kiefer Sutherland), dimostrano l'inquietudine di chi ha organizzato tutto, spendendo anche molto e sta rischiando una pessima figura con gli invitati, ma l'uomo non può fare a meno di notare in cielo la stella Anthares (anche se più avanti farà riferimento ai soldi spesi, mostrando tutta la sua grettezza).

Una delle inquadrature kubrickiane del film
Il disturbo che si prova di fronte alla descrizione della festa è un piccolo saggio del cinema del regista danese, sempre così bravo a mettere a disagio lo spettatore (ma perché?): Justine non sembra affatto felice e coglie più volte l'occasione per allontanarsi dalle sale e ritirarsi in giardino (un campo di golf a 18 buche), farsi un bagno o mettere a letto il nipote, per poi finire con l'addormentarsi lei stessa; i suoi genitori (John Hurt e Charlotte Rampling), divorziati, sono in continuo contrasto e così, se il padre è semplicemente felice per la figlia, la madre, rigidissima, non solo non è andata in chiesa, ma ora dichiara tutta la sua sfiducia nei confronti del matrimonio come istituzione. C'è spazio anche per il datore di lavoro di Justine (Stellan Skarsgård), grazie al quale scopriamo che la protagonista lavora come autrice di pubblicità, e che viene pungolata dall'uomo durante la festa proprio per ottenere uno slogan che possa far presa sui più giovani per renderli dipendenti di un prodotto scadente, motivazione per cui viene assoldato anche un giovane collaboratore che tampina la giovane sposa.
Justine sfoga la sua infelicità anche nella biblioteca della grande villa, dove espone libri d'arte aperti sulle immagini di diversi quadri: tra questi, ritornano i due già visti nell'introduzione di Brueghel e di Millais, quest'ultimo ancora più evidentemente specchio della condizione di Justine, ma soprattutto il David con la testa di Golia di Caravaggio, uno dei dipinti più disperati della storia dell'arte, fosse solo perché realizzato dall'artista, che si autoritrae nella testa mozzata, come ultimo grido di salvezza, al fine di ottenere la grazia da Paolo V Borghese, che però giungerà solo dopo la morte del pittore.
Di fronte alla disperazione della figlia, invece, Gaby (Charlotte Rampling) sarà più dura: di fronte al suo pianto sentenzierà che "tutti abbiamo paura... smetti di sognare" e mentre gli sposi e tutti gli invitati firmano la carta di una lanterna volante, vero simbolo dei sogni da realizzare, li guarda con disprezzo a distanza sotto un gazebo.
Justine vivrà pienamente la crisi, non riuscendo a lasciarsi andare con il marito; facendo sesso, per contrasto, in giardino con il ragazzo a caccia di slogan; dichiarando al datore di lavoro cosa pensa realmente di lui ("spregevole piccolo uomo affamato di potere"), costringendolo di fatto ad andarsene; e, infine, chiedendo al padre di restare (ma anche lui andrà via), mentre tutti gli invitati lasciano la villa, compreso il marito Michael a cui dedica un laconico "cosa ti aspettavi?".
Da questo momento in poi, in maniera decisamente slegata, inizia una terza parte del film, quella che potremmo definire "propriamente millenaristica", quella durante la quale il timore del contatto con il pianeta Melancholia prende il sopravvento, nonostante le rassicurazioni di John, come già visto esperto di astronomia. Anche la fotografia, firmata da Manuel Alberto Claro, cambia totalmente e, dai toni caldi e gialli, si passa ad un freddo bluastro decisamente più malinconico.
Al mattino seguente la festa, il piccolo Leo mostrerà alla zia Justine (che chiama per tutto il film "zietta spezza-acciaio", un nomignolo degno di un manga giapponese sui robot anni '70-'80), in lacrime sin dalla colazione, il famoso pianeta nascosto dal sole. Justine continua a sfogarsi anche contro l'amato cavallo, che frusta con immotivata decisione durante una cavalcata con la sorella. 
Anche Claire inizia a preoccuparsi del pianeta in avvicinamento, facendo ricerca sul web (ma proprio in quel momento c'è un black out), e ottiene da Justine, improvvisamente identica alla madre, solo frasi prive di speranza: "la terra è cattiva, nessuno ne sentirà la mancanza... noi siamo solo... la vita è soltanto sulla terra e per poco ancora".
Von Trier, però, ci regala un'altra splendida immagine in questa fase del film, mostrandoci il corpo nudo di Kirsten Dunst dopo un bagno nel fiume, stesa sensualmente alla luce lunare, che improvvisamente riporta lo spettatore al bellissimo inizio onirico.
La situazione precipita e, dopo il momento del "passaggio ravvicinato" del pianeta (la visione di Melancholia che invade il cielo è davvero bellissima), John fa un brindisi alla vita, ma al risveglio è sparito. Claire perde il controllo e ci si mette anche il tempo atmosferico, cosicché dopo una luminosa nevicata si passa alla grandine che colpisce gli ormai tre protagonisti davanti alla buca 19 (ma non erano 18?).
Per tranquillizzare Leo, la "zietta spezza-acciaio" costruisce una piccola capanna fatta di rami, sotto i quali il bambino Claire e Justine trovano un ultimo rifugio prima della collisione...

Con Melancholia Lars von Trier, che ha dichiarato di essersi ispirato per il soggetto ad una seduta di psichiatria per un episodio di depressione vissuto in prima persona, perde un'altra occasione, puntando al capolavoro, ma ottenendo un film disorganico, che non ha una vera e propria narrazione, cosa che non sarebbe automaticamente un male, poiché come evidenziato la pellicola dà il suo meglio proprio quando non pretende di raccontare e giustappone immagini orchestrate in maniera splendida e pittorica. 
Che poi il film abbia ottenuto una grandissima eco è cosa indiscutibile e, come tutte le opere del regista danese, ha la capacità di spaccare in due la critica, un grande merito che gli va indubbiamente riconosciuto.
La grande eco del film, peraltro, ha raggiunto anche Matt Groening, che in una puntata dei Simpon gli ha regalato un omaggio con cui mi piace chiudere anche per sdrammatizzare i toni cupi della pellicola (link).

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