venerdì 18 aprile 2014

Grand Budapest Hotel (Anderson 2014)

La nuova commedia di Wes Anderson è un ottovolante dal ritmo forsennato. Salirci comporta accettarne le conseguenze: trama intrecciata, proliferazione di personaggi, continui colpi di scena, il tutto messo in scena con una ricerca ossessiva della prospettiva centrale, che praticamente caratterizza ogni inquadratura del film, e interpretato da un cast costituito da oltre dieci attori di primissimo piano. La pellicola è un omaggio alla produzione letteraria di Stefan Zweig, scrittore austriaco le cui opere vennero bruciate di nazisti nel 1933, ma anche alla commedia classica di Lubitsch e di Wilder, di cui Anderson riprende il formato, che cambia tre volte durante il film, per poi attestarsi sulla cosiddetta academy ratio (1,37:1, proporzione del 35 mm scelta a Hollywood a partire dal 1933).

Nella fantomatica ex Repubblica di Zubrowka (con questo nome esiste solo una vodka polacca!), nell'est europeo, una giovane donna ammira il busto dello scrittore, su cui compare l'iscrizione "the author", di cui sta leggendo un libro.
Un'improvvisa accelerazione ci porta, con più salti, indietro nel tempo: prima nel 1985, quando l'anonimo autore del libro (Tom Wilkinson), ancora vivo, inizia il racconto; quindi nel 1968, epoca in cui, raggiunto l'hotel sulle cime innevate, lo stesso scrittore (ora interpretato da Jude Law) conosce il padrone della struttura, Zero Mustapha (F. Murray Abraham), che a cena inizia a raccontargli come ha acquisito la sua fortuna.
È così che la vicenda fa il suo ennesimo salto nel passato fino al 1932, quando Zero era un semplice 'garzoncello' dell'albergo (sul berretto di Tony Revolory, praticamente l'unico attore esordiente, si legge lobby boy) alle dirette dipendenze dell'istrionico concierge Monsieur Gustave (Ralph Fiennes).
Questa cornice narrativa connota subito l'opera di Anderson come ipertrofica apposizione di elementi, con una struttura che più che a cannocchiale potrebbe essere definita, in questo caso, a matrioska, data la colonna sonora dominata da motivi suonati rigorosamente con la balalaika
Gustave e Zero sono i veri protagonisti della storia che la sceneggiatura divide in cinque atti.
Nel primo scopriamo che Gustave è un po' più di un semplice concierge, poiché tra i suoi compiti rientra anche l'intrattenimento con le facoltose ospiti dell'albergo che sembrano apprezzarne la solerzia e le attenzioni. Indimenticabile la risposta che Gustave offre a Zero quando gli chiede la natura della sua gerontofilia: "quando sì è giovani conta solo il filetto, ma con il passare del tempo bisogna accontentarsi di tagli meno pregiati".
Una di queste signore, Celine Villeneuve Desgoffe e Taxis, nota più semplicemente come Madame D (Tilda Swinton), muore all'improvviso per avvelenamento e alla lettura del testamento, aperto dall'esecutore Kovacs (Jeff Goldblum) sì presentano al castello, i cui servitori sono Serge (il polanskiano Mathieu Amalric) e Clotilde (Léa Seydoux), decine tra parenti e amici. A Gustave spetta Ragazzo con mela, dipinto rinascimentale di tale Van Heuten dal valore inestimabile che verrà "prontamente" sostituita da una tela di soggetto erotico che funge da quadro di Egon Schiele (ma in realtà è opera dell'illustratore Rich Pellegrino). L'attenzione di Madame D (e di Wes Anderson) alla pittura della Secessione viennese merita una parentesi, poiché nella suite dell'hotel si ammira Il bosco di betulle di Gustav Klimt, artista citato anche nell'abito a motivi geometrici dorati che la Swinton indossa quando lascia l'albergo e in un altro dipinto poggiato ad una parete della villa della donna, che sembra essere Il ritratto della baronessa Elisabeth Bachofen-Echt.
La morte di Celine e la partenza del prezioso dipinto sono gli eventi attorno ai quali gira l'ottovolante di Wes Anderson, trasformando il film in un'allegra spy story dai toni spiccatamente grotteschi. A determinarne le successive vicende, infatti, contribuiscono accuse, arresti, omicidi e ricerca del reale colpevole della morte di Madame D.
Uno dei numerosissimi esempi di prospettiva centrale del film
Il figlio della defunta, Dimitri (Adrien Brody), è furioso per aver perso il quadro più prezioso della collezione; un suo uomo di fiducia, Joplin, gli fa da sicario (uccide in maniera pulp Kovacs e la sorella di Serge) e da investigatore (lo interpreta un eccezionale Willem Dafoe che comunica senza parole ma esclusivamente attraverso un volto vampiresco, rapide azioni e piccoli gesti coadiuvati da 'vezzosi' anelli da picchiatore).
Il capo delle guardie armate dalle divise prussiane, Henckel (Ed Norton), arresta Gustave con l'accusa di omicidio dopo una soffiata del maggiordomo Serge. Segue, nel capitolo tre, l'evasione del nostro eroe, che la organizza con alcuni compagni di galera guidati da Ludwig (un ottimo Harvey Keitel che recita a petto nudo per mostrare tatuaggi degni dell'amico De Niro in Cape fear).
Dopo la fuga, il resto del film ingloba l'immancabile parte romantica, con Zero che sì innamora della giovane fornaia Agatha (una Saoirse Ronan molto lontana da quella di Monceau di rohmeriana memoria) caratterizzata da una voglia a forma di Messico su una guancia, e la soluzione dell'enigma con la scoperta del vero colpevole.
La riabilitazione di Gustave avverrà grazie all'intervento della 'società delle chiavi incrociate', sorta di confraternita che riunisce i concierge dei più grandi alberghi (tra i sodali c'è anche Bill Murray), ma anche grazie al ritrovamento di una copia di un'altra versione del testamento che lo rende erede unico della fortuna della signora Celine, permettendogli di donare il Gran Budapest Hotel a Zero Mustapha, chiudendo così anche la cornice narrativa.

Come già detto, per seguire questo film bisogna lasciarsi trasportare dal ritmo delle situazioni, velocissimo come sullo slittino con cui Gustave e Zero rincorrono sulla neve il perfido Joplin, o rallentato, come nella bellissima sequenza in cui due vetture di una funivia si incrociano nel vuoto (in un'ennesima inquadratura a prospettiva centrale) per permettere il trasferimento di passeggeri da una all'altra. Si può inoltre rimanere affascinati dai colori pastello che lo impreziosiscono (ricordate Four rooms che con il film condivide anche la tematica alberghiera?), per poi essere ripagati da alcune sequenze che starebbero bene in una puntata del Monty Python Flying Circus: su tutte penso proprio al quarto capitolo sulla "società delle chiavi incrociate", i cui membri sono identificati da due spille con il simbolo decussato sul bavero della giacca. In effetti John Cleese come uno dei concierge (magari al posto di Jason Schwartzman o di Owen Wilson che compaiono in altri ennesimi cameo) sarebbe stata un'azzeccata ciliegina su una torta, non perfetta, non indimenticabile, d'altronde come gli altri "dolci" di Wes Anderson, ma i cui ingredienti (regia, interpretazione, fotografia e sceneggiatura) fanno comunque di questo film un buon risultato. 

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