venerdì 29 marzo 2019

La casa di Jack (Von Trier 2018)

Lars von Trier, dopo il dissacrante viaggio nelle perversioni del sesso in Nymphomaniac (2013 a-b), compie un ulteriore passo verso la provocazione e la soglia della sopportazione di ogni spettatore e, ne La casa di Jack, affronta violenza, misoginia, impunità, fascinazione del male, fino a fare i conti con il più tradizionale dei luoghi di dannazione, l'Inferno di Dante Alighieri.
Preciso in anticipo che la versione qui recensita non è quella del director's cut, delle polemiche della première al Festival di Cannes del 2018, durante la quale diversi spettatori abbandonarono la sala, ma, in attesa di vederla, è quella censurata di due minuti.
Come nel suo ultimo film, il regista danese divide la narrazione in più capitoli, in questo caso cinque, corrispondenti ad altrettanti incidenti occorsi in dodici anni al protagonista Jack (Matt Dillon), che in sequenze decontestualizzate riassume in più occasioni i concetti trattati attraverso alcuni cartelli che sfoglia davanti alla mdp, come faceva Bob Dylan nel video di Subterranean Homesick Blues (1965).
La mdp è molto spesso in movimento, secondo quella che era una rigida regola (la terza) del decalogo Dogma 95, da cui però von Trier, a differenza di molti dei suoi seguaci, si distanziava frequentemente già allora. Anche la musica era bandita un tempo, a meno che non fosse intradiegetica (secondo comandamento del Dogma), ma invece il regista danese la usa eccome: c'è Bach e anche degli intermezzi con video di Glenn Gould in vestaglia al pianoforte, ma soprattutto c'è David Bowie con Fame, che si ripete come tema portante della furia omicida del protagonista, e infine non può mancare Hit The Road Jack (Buster Poindexer), fosse solo per il nome che ha nel titolo.
A fare da raccordo tra le cinque storie raccontate, inoltre, c'è anche la fondamentale voce off, funzionale, partecipe e mai semplicemente didascalica, di Bruno Ganz.
La casa di Jack è una chimera, un inarrivabile punto d'arrivo che lui, ingegnere con un sogno frustrato da architetto, progetta e disfa come Penelope faceva con la sua tela. In lui l'insoddisfazione si fa da parte solo quando uccide, serial killer dichiarato, certo che "a volte il miglior modo di nascondersi è non nascondersi affatto".
Le vittime sono in netta prevalenza donne: dalla magnifica Uma Thurman, nei panni di un'insopportabile logorroica, alla inconsistente madre di due bambini (Sofie Gråbøl), fino all'impalpabile amante Jacqueline (Riley Keough), che lui chiama con disprezzo "Simple", a cui rivela di aver ucciso sessanta persone, anzi sessantuno... e di fronte alla curiosità della ragazza le comunica sconsolato che "se non fossi completamente stupida, capiresti il termine aggiornato".
È la stessa voce fuori campo a evidenziare come le donne incontrate non brillino per intelligenza, segno di una ricerca di conferme alla misoginia sottostante a frasi come "perché è sempre colpa dell'uomo? Se uno è nato maschio, è anche nato colpevole... è ingiusto".
Eppure, nonostante i sorrisi durino pochissimo, subito interrotti dalle efferatezze del protagonista, i toni della commedia non mancano mai: è comico nella sua irritante loquacità il personaggio di Uma Thurman, ma soprattutto è eccezionale Matt Dillon che, complice la sceneggiatura, riesce a rendere simpatico un personaggio che solo la magia del cinema può rendere tollerabile. Jack pensa a Hitler, Mussolini e Stalin come icone del '900, è ossessivo-compulsivo, odia le donne così come odia le più piccole macchie: vederlo tornare più volte sulla scena del delitto solo per togliere gocce di sangue in angoli nascosti, che in realtà si rivelano essere frutto della sua immaginazione, è davvero esilarante, ma anche qui le risate vengono interrotte dalla tensione del momento.
È divertente quanto terribile, per i toni cinici e scanzonati, la gita in cui la lezione di caccia vede gli iniziali discenti trasformarsi in prede, al solo fine di creare una perfetta composizione di tre esseri umani e cinquanta corvi: "guarda l'opera", precisa Jack alla voce che sembra psicanalizzarlo, indicandogli di non dare peso agli omicidi che l'hanno resa possibile.
Questa, però, è solo una delle numerosissime immagini indimenticabili del film, dal punto di vista visivo davvero eccezionale.
Oltre alla già evidenziata citazione dylaniana, von Trier cita se stesso, inserendo nel montaggio alcuni fotogrammi di suoi film, non certo scelti a caso (Melancholia e Antichrist), quasi a dare carattere autobiografico alla storia di Jack, che vede scorrere davanti agli occhi tutta la sua vita in pochi secondi, prima di entrare nella porta dell'Inferno, all'interno della casa costituita dai cadaveri delle sue vittime, conservati nella cella frigorifera in cui li accumula, laddove inoltre segna il pavimento con del nastro adesivo, cioè nello stesso modo con cui venivano delimitati gli ambienti in Dogville (Von Trier 1993).
C'è spazio anche per Kubrick, che in un film così curato dal punto di vista visivo, è un omaggio alla perfezione della messa in scena piuttosto che una semplice citazione. Come non pensare al maestro di Full metal Jacket (1987), quando Jack, per emulare i nazisti che uccidevano più persone con un solo colpo, inizia a cercare delle "pallottole incamiciate" e, non trovandole, va da un negoziante che si chiama Al (Jeremy Davies), che suona come il celeberrimo Hal 9000 di 2001. Odissea nello spazio (1968)?
La casa di Jack, inoltre, rimanda a tanta altra arte figurativa: ricorda molto il San Girolamo nello studio di Antonello da Messina l'inquadratura di Jack seduto alla scrivania in una stanza, peraltro introdotta da un'arcata a sesto acuto che permette alla sceneggiatura la prima di una serie di digressioni in stile documentaristico presenti nel film, qui sull'arte e l'architettura gotica; l'episodio della gita e della caccia viene introdotta da numerosi dipinti con scene venatorie; Jack scatta fotografie alle sue vittime, che invia ai giornali firmandole Mr Sophistication, e per la sua consueta compulsione rimette i corpi in posa per fare "foto più ispirate", e di queste vediamo i soli negativi, quasi fossero opere di Man Ray.
La metafora visiva sull'evoluzione del piacere omicida
È un piccolo capolavoro la metafora dell'evoluzione del piacere omicida di Jack, descritta in parole e in immagini con il disegno in movimento di una passeggiata tra due lampioni: sotto alle due luci il culmine che coincide con l'omicidio, mentre durante il percorso l'ombra è prima davanti all'uomo, conseguenza dell'eccitazione successiva all'azione commessa, e poi alle sue spalle, diventando una presenza incombente che lo spinge a tornare a uccidere (vedi).
Un discorso a parte meritano, inoltre, le suggestioni dantesche, a partire dalla vestizione di Jack: l'espediente usato da von Trier, infatti, è fargli indossare "per caso" un accappatoio rosso, che lo trasforma a tutti gli effetti in un novello Dante.
All'iconografia dantesca rimanda anche la ricostruzione, degna del Pasolini de La ricotta (1963) o del Godard di Passion (1982), della Barca di Dante di Delacroix (Parigi, Louvre, 1882), momento apicale della pellicola evidenziato dallo slow motion.

Il cineasta danese delinea l'Inferno con mucchi di anime ammassate, pareti rocciose, ponti rotti, seguendo perfettamente l'immaginario dantesco e le illustrazioni che nei secoli hanno provato a riprodurlo, come fece anche William Blake nel XIX secolo, alcuni dei cui disegni relativi alla Commedia vengono mostrati allo spettatore.
Dell'artista inglese in sceneggiatura compare anche il riferimento alle sue poesie sulla tigre (The Tyger) e sull'agnello (The Lamb), rispettivamente figura satanica e innocente per antonomasia, contrapposti come bene e male, in fondo due lati della stessa medaglia, come dice Jack: "io credo che Inferno e Paradiso siano la stessa cosa: l'anima appartiene al Paradiso e il corpo all'Inferno".
E non a caso Jack, nietzschieanamente, vede nella tigre la vera natura dell'uomo, quella priva di convenzioni sociali e quindi di etica, riassunta nelle parole rivolte alla sua guida, al suo Super-io: "il vostro dio ha insegnato agli uomini a nascondere la tigre che c'è in loro".
Una scena del film e La barca di Dante di Delacroix
Che Male e Bene convivano, infine, sembra volerlo dimostrare uno dei tanti inserti documentaristici, stavolta affidato alla voce di Virgilio-Ganz che ricorda la quercia di Goethe, l'unica conservata dai tedeschi quando la foresta di Weimar venne disboscata per l'edificazione ma che, amara ironia della sorte, durante il nazismo finì per essere inserita all'interno del recinto del campo di concentramento di Buchenwald.
D'altronde Lucifero era un angelo caduto... e il magma infuocato può diventare il ghiaccio del Cocito, in un continuo gioco di opposti che si attraggono.

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