Il film di Gustav Möller, da non confondere con l'omonimo The Guilty - Il colpevole (Waller 2000), dal quale in Italia è stato differenziato anteponendo il titolo tradotto a quello originale, è claustrofobico, asciutto, ossessivo, disturbante, tagliente, angosciante e sorprendente, oltre che molto bello.
L'impianto narrativo è rigorosissimo e la struttura obbliga la vicenda e la pellicola negli spazi ristretti di un ufficio del pronto intervento di Copenaghen, teatro di un thriller telefonico che, se da una parte può far pensare a Locke (Knight 2013), dove Tom Hardy passava al telefono e alla guida l'intera durata del film, dall'altra se ne distanzia nel soggetto: qui il protagonista ha il difficile compito di limitare i danni in una situazione intricatissima, ma in cui almeno inizialmente non è coinvolto, mentre lì era in subbuglio la propria vita privata.
Asger Holm (Jakob Cedergren) risponde al 112, un impiego che vive come una punizione, poiché fino a poco tempo prima lavorava nelle volanti in strada. Allo spettatore non è dato di sapere cosa ne ha causato il demansionamento, ma questo senso di insoddisfazione del protagonista è il primo di una lunga serie di sentimenti disturbanti con cui dovrà fare i conti.
La giornata di Asger sarà incredibile e, in un crescendo continuo d'intensità drammatica, lo vedrà passare da un sostanziale disinteresse per quel lavoro alla totale partecipazione emotiva per una delle emergenze comunicategli al telefono. Una donna, infatti, Iben, riesce a chiamarlo dal furgone in cui è stata rinchiusa da un rapitore; l'agente tenta di aiutarla in tutti i modi, salvaguardando anche i due bambini rimasti a casa, e soprattutto dandole consigli per non soccombere al rapitore, Michael, che è anche il padre dei suoi figli, la piccola Mathilde e il neonato Oliver. Asger trascorre la giornata a telefono, cercando di risolvere il caso, non accorgendosi nemmeno quando il proprio turno di giornata finisce e andando oltre per dovere etico, conscio di essere diventato il punto di riferimento della donna e sentendosi utile e persino necessario come non gli capitava evidentemente da tempo.
Collabora con lui, dirigendosi nell'appartamento di Michael, il collega Rashid, quello che lo accompagnava durante l'azione per cui Asger dovrà andare sotto processo, mentre altri poliziotti, guidati sempre da Asger, vanno nella casa in cui sono i bambini.
Il protagonista parla a telefono con tutti: con Iben, con Michael, con Rashid, persino con Mathilde, e ha sempre la lucidità che gli permette di gestire l'azione in modo da evitare che la situazione deflagri. Sa essere empatico, premuroso, professionale, rasserenante, ma anche doppiogiochista e minaccioso a seconda dei momenti e degli interlocutori. Sta mettendo tutto se stesso in questa urgenza, fa tutto al meglio, ma chi può avere la certezza che le sue contromosse stiano davvero andando nella giusta direzione?
La regia è perfetta nel coinvolgere lo spettatore in una storia al limite, in cui tutto è declinato nella soggettiva di Asger: tutto ciò che ascoltiamo corrisponde a quello che ascolta il protagonista e viviamo con lui ogni mutamento emozionale, in una immedesimazione totale che è indubbiamente uno dei massimi pregi della pellicola. È un film da ascoltare più che da vedere, ma nel quale però, significativamente, non c'è musica finché Asger non si alza dalla sedia alla fine della sua lunga giornata.
Eppure c'è spazio persino per sorridere, anche se molto velocemente, quando nel massimo della tensione generata dalle continue telefonate connesse al rapimento di Iben, al 112 arriva la chiamata di una donna che si è sbucciata un ginocchio cadendo da una bicicletta, che causa un sonoro quanto grottesco "non ho tempo da perdere" di Asger che riaggancia con decisione.
Möller non lascia nulla al caso e anche l'inserimento di Helsingør ha un ruolo rilevante nella notevole sceneggiatura, scritta a quattro mani con Emil Nygaard Albertsen, poiché concede allo spettatore straniero la possibilità di cogliere la citazione dell'opera più famosa ambientata in Danimarca: Elsinore, come siamo abituati a conoscerla alle nostre latitudini, è il luogo dell'Amleto di Shakespeare e non a caso nel film vi sorge un sanatorio mentale.
Il colpevole, premiato dal pubblico al Sundance e per sceneggiatura e attore principale a Torino, è un film senza speranza in cui nulla è come sembra: la certezza della visione non è mai stata tanto incerta come in questa riuscitissima opera prima.
Asger Holm (Jakob Cedergren) risponde al 112, un impiego che vive come una punizione, poiché fino a poco tempo prima lavorava nelle volanti in strada. Allo spettatore non è dato di sapere cosa ne ha causato il demansionamento, ma questo senso di insoddisfazione del protagonista è il primo di una lunga serie di sentimenti disturbanti con cui dovrà fare i conti.
La giornata di Asger sarà incredibile e, in un crescendo continuo d'intensità drammatica, lo vedrà passare da un sostanziale disinteresse per quel lavoro alla totale partecipazione emotiva per una delle emergenze comunicategli al telefono. Una donna, infatti, Iben, riesce a chiamarlo dal furgone in cui è stata rinchiusa da un rapitore; l'agente tenta di aiutarla in tutti i modi, salvaguardando anche i due bambini rimasti a casa, e soprattutto dandole consigli per non soccombere al rapitore, Michael, che è anche il padre dei suoi figli, la piccola Mathilde e il neonato Oliver. Asger trascorre la giornata a telefono, cercando di risolvere il caso, non accorgendosi nemmeno quando il proprio turno di giornata finisce e andando oltre per dovere etico, conscio di essere diventato il punto di riferimento della donna e sentendosi utile e persino necessario come non gli capitava evidentemente da tempo.
Collabora con lui, dirigendosi nell'appartamento di Michael, il collega Rashid, quello che lo accompagnava durante l'azione per cui Asger dovrà andare sotto processo, mentre altri poliziotti, guidati sempre da Asger, vanno nella casa in cui sono i bambini.
Il protagonista parla a telefono con tutti: con Iben, con Michael, con Rashid, persino con Mathilde, e ha sempre la lucidità che gli permette di gestire l'azione in modo da evitare che la situazione deflagri. Sa essere empatico, premuroso, professionale, rasserenante, ma anche doppiogiochista e minaccioso a seconda dei momenti e degli interlocutori. Sta mettendo tutto se stesso in questa urgenza, fa tutto al meglio, ma chi può avere la certezza che le sue contromosse stiano davvero andando nella giusta direzione?
La regia è perfetta nel coinvolgere lo spettatore in una storia al limite, in cui tutto è declinato nella soggettiva di Asger: tutto ciò che ascoltiamo corrisponde a quello che ascolta il protagonista e viviamo con lui ogni mutamento emozionale, in una immedesimazione totale che è indubbiamente uno dei massimi pregi della pellicola. È un film da ascoltare più che da vedere, ma nel quale però, significativamente, non c'è musica finché Asger non si alza dalla sedia alla fine della sua lunga giornata.
Eppure c'è spazio persino per sorridere, anche se molto velocemente, quando nel massimo della tensione generata dalle continue telefonate connesse al rapimento di Iben, al 112 arriva la chiamata di una donna che si è sbucciata un ginocchio cadendo da una bicicletta, che causa un sonoro quanto grottesco "non ho tempo da perdere" di Asger che riaggancia con decisione.
Möller non lascia nulla al caso e anche l'inserimento di Helsingør ha un ruolo rilevante nella notevole sceneggiatura, scritta a quattro mani con Emil Nygaard Albertsen, poiché concede allo spettatore straniero la possibilità di cogliere la citazione dell'opera più famosa ambientata in Danimarca: Elsinore, come siamo abituati a conoscerla alle nostre latitudini, è il luogo dell'Amleto di Shakespeare e non a caso nel film vi sorge un sanatorio mentale.
Il colpevole, premiato dal pubblico al Sundance e per sceneggiatura e attore principale a Torino, è un film senza speranza in cui nulla è come sembra: la certezza della visione non è mai stata tanto incerta come in questa riuscitissima opera prima.
Nessun commento:
Posta un commento