giovedì 29 ottobre 2015

I pugni in tasca (Bellocchio 1965)

Cinquant'anni e non sentirli! L'opera prima di Marco Bellocchio, appena restaurata per il cinquantesimo anniversario, resta un grande film ancora oggi, dopo tanti anni da quell'Italia ante-contestazione del '68 di cui rappresenta un'ideale premessa.
Naturalmente, però, pensare oggi all'impatto devastante che dovette avere una pellicola del genere alla metà degli anni Sessanta è d'obbligo e aumenta il valore di una pellicola che ha fatto storia e che, proprio per la sua forza dirompente e per la sua apparente mancanza di modelli (né il neorealismo, né la nouvelle vague), nella storia del cinema italiano può essere paragonata solo a ciò che rappresentò Roma città aperta venti anni prima.

Come spesso capita alle opere prime, il film fu realizzato con costi ridotti, in buona parte finanziato con cinquanta milioni da Tonino Bellocchio, fratello del regista, girato in luoghi familiari (non solo Bobbio, ma anche la casa della madre di Bellocchio), con un cast trovato tra conoscenze e persone incontrate al Centro sperimentale  (Lou Castel fu scelto a mensa!). E così il montaggio fu affidato al collega Silvano Agosti (che però si firma col nome di un amico muratore, Aurelio Mangiarotti) e le musiche a Ennio Morricone, già famoso dopo Per un pugno di dollari (Leone 1964), due temperamenti da leader che facevano temere Bellocchio per la propria autonomia di autore, ma non fu così e il grande risultato finale è ancora oggi sotto gli occhi di tutti...

Una famiglia di provincia, la Bobbio del regista, quattro figli orfani di padre, una madre cieca, in una grande casa di campagna. In questo contesto si dipana una storia cupa, in cui il primogenito Augusto (Marino Masè) è combattuto tra la voglia di indipendenza e di una vita di coppia con la fidanzata Lucia (Jenny MacNeil) e la responsabilità sulla madre (Liliana Gerace) e sugli altri fratelli: Giulia (Paola Pitagora), bella e morbosa, Alessandro (Lou Castel), irrequieto ed epilettico, e Leone (Pierluigi Troglio), con evidenti ritardi mentali. 
Sandro è indubbiamente il protagonista del film, con il suo lucido cinismo che lo porta ad avvertire, più dello stesso Augusto, quanto la famiglia rappresenti un ostacolo alla libertà dei singoli componenti. E più di una volta ripete al fratello maggiore quanto potrebbe essere migliore la sua vita senza quelle responsabilità e quelle spese...
Alessandro è duro e cinico anche con un bambino a cui dà ripetizioni e che offende ripetutamente, in una sequenza che si apre con l'oraziano "sole che sorgi, libero e giocondo", che Sandro recita al risveglio sul balcone che dà sulla campagna circostante, e che mostra la sua scrivania con un piccolo busto di Dante Alighieri, a sottolineare con pochi elementi gli studi umanistici del personaggio, che più avanti, in una scena indimenticabile, canta persino l'aria Sempre libera de La traviata... È sempre Sandro, peraltro, in un altro passaggio significativo, a leggere il giornale alla madre non vedente, a cui però propina notizie inventate, costituite da tragedie familiari non così lontane dai suoi pensieri.
L'occasione gli si presenta il giorno in cui ottiene da Augusto il permesso di accompagnare il resto della famiglia al cimitero, dicendo di aver preso la patente per il cui esame, invece, è stato bocciato. L'adrenalina di un sorpasso spericolato (come non vederci una citazione del film di Dino Risi del 1962?), però, lo distrae dall'intento e gli fa perdere la curva "giusta", cosicché al ritorno a casa, la lettera lasciata al fratello gli causa dei sonori schiaffi a cui reagisce ridendo in maniera irriverente.
Le reali intenzioni di Alessandro, però, non si faranno attendere molto...

La pellicola è un continuo pugno nello stomaco per lo spettatore, un ribaltamento costante dei valori borghesi. La famiglia protagonista è una famiglia distorta che, fatta eccezione per Augusto, è costituita da quelli che l'immaginario collettivo reputa "anormali", da personaggi grotteschi ai limiti dell'horror, genere in cui il film e sceneggiatura non scivolano nonostante la musica morriconiana talvolta sembri suggerirlo. 
Il contrasto tra morale comune e etica alterata di Sandro è evidente in ogni sequenza, e scoprire che in una stanza esista l'intera collezione di Pro Familia è solo una conferma della realtà in cui sono cresciuti i ragazzi, ancor più amplificata dall'interesse puramente venale per il possibile valore economico di quelle riviste.
Alessandro fatica enormemente a vivere in quel contesto e a tratti, complice anche la sua preparazione classica, sembra un personaggio a metà tra un Giacomo Leopardi votato al cinismo (in una scena cita anche Le ricordanze del poeta recanatese: "l'età verde sarei dannato a consumare questo natio borgo selvaggio"), e un Edmund ormai cresciuto di Germania anno zero (Rossellini 1948), che già da bambino aveva imparato dal suo maestro che «i deboli devono soccombere e i forti sopravvivere». Va da sé che l'attenzione di Sandro verso i discorsi degli altri si faccia acuta quando in un locale sente un ragazzo occhialuto parlare dell'homo homini lupus di Hobbes.


Marco Bellocchio, allora giovane venticinquenne, gira magnificamente e nulla sembra lasciato al caso: soggettive che potremmo definire in absencia da un'auto dalla quale sono scesi tutti, tranne la mdp; finestrini laterali dell'auto che fanno da cornice all'inquadratura; split-screen ricavati dagli elementi della scena, come il feretro della madre a lato del quale dialogano Sandro e Giulia.
Tutto il film è costituito da scene madri che restano indelebilmente nella memoria: dalla lezione di recupero alla scorribanda in auto, già citate; dall'affaccio di Sandro e della madre sul burrone, al simbolico falò dei mobili della casa, con Sandro e Giulia che danzano tra fuoco e neve come in un sabba; dalla vasca da bagno preparata a Leone - che fa pensare alla scena di Simone Signoret e Paul Meurisse ne Les diaboliques (Clouzot 1955) - ad Augusto che va con gli amici a sparare ai topi in una discarica, simbolo di una gioventù priva di interessi e che punta solo a reiterare il sogno borghese di avere una famiglia e ottenere il benessere economico (Augusto e Sandro non trovano di meglio da dire sulla futura sposa del primogenito, che sta dando una mano in casa, di "Lucia è efficiente").
Manca la vita, come evidenziano l'entusiastica pruderie che mostra Giulia quando Sandro la porta a vedere le prostitute, e lo stesso bisogno che i due hanno di dare sfogo alla loro sessualità repressa, consumata in soffitta in una scena d'incesto attentamente tagliata dalla censura.
Ed è proprio questa piatta esistenza alla base della compressa irrequietezza - i pugni in tasca del titolo - che Sandro spiega con parole chiare alla sorella: "è questa energia che mi sento ma che devo assolutamente applicare a qualcosa"; ed è ancora lui a sottolineare, dopo la morte della madre, e vedendo la casa piena di persone, "questa casa non è mai stata così viva come per un funerale", augurando al fratello maggiore "cento di questi giorni".
Oltre ai riferimenti alla letteratura, alla filosofia e al cinema, anche arte e fotografia sono ben presenti: cosicché quando vediamo inquadrati dall'alto dei chierichetti sulla neve è facile pensare a I preti di Mario Giacomelli, serie di scatti realizzata tra 1962 e 1963, e così, quando tra i quadretti che decorano le pareti della casa spunta il Ritratto di Beatrice Cenci di Guido Reni (Roma, Palazzo Barberini), dipinto che rimanda ad uno dei fatti di cronaca nera familiare più famosi del Seicento, è una coincidenza che se non voluta è comunque fortunosamente appropriata.
...e pensare che nei ruoli di Lou Castel e di Paola Pitagora, Marco Bellocchio aveva pensato a Gianni Morandi e Raffaella Carrà... ma, almeno per Morandi, la casa di produzione, l'RCA, non pensò fosse una grande idea per il prosieguo della sua carriera.
Il ritratto di Beatrice Cenci dietro i protagonisti
La verità è che I pugni in tasca faceva paura: un film ribelle, di rottura con la morale comune, che approfondiva temi piscologici mai troppo frequentati in Italia, non più neorealista, privo di strizzate d'occhio ai registi francesi tanto in voga al tempo, e infatti rifiutato alla Mostra del cinema di Venezia, anche se poi vinse il Premio città di Imola e il Nastro d'argento come miglior soggetto originale.
Si è tentato col tempo di trovare dei padri a I pugni in tasca, e lo si è fatto citando Ossessione (Visconti 1943), Monsieur Verdoux (Chaplin 1949), ma anche il cinema di Bresson, spesso cupo e senza speranza, o il cinismo di quello di Buñuel. Qualcosa di francese, però, nel film sicuramente c'è, e si nasconde dietro lo splendido titolo che, pur se Bellocchio ha negato di esserne a conoscenza quando lo scelse, è un verso di Arthur Rimbaud da La mia Bohème:
Me ne andavo, i pugni nelle tasche sfondate;
anche il mio cappotto diventava ideale;
andavo sotto il cielo, Musa!, ed ero il tuo leale;
oh! quanti amori assurdi ho strasognato.

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