Tratto dai romanzi di Edwin Torres Carlito's Way e Afterhours, dopo Gli intoccabili (1987), è il secondo grande gangster movie realizzato da Brian De Palma. La vicenda di Carlo Brigante, interpretato da un Al Pacino in stato di grazia, è l'ennesimo spunto per dimostrare le virtù registiche di uno dei cineasti più talentuosi di quella che fino a qualche anno fa era nota come la generazione della Nuova Hollywood.
E sin dai titoli di testa si percepisce l'altissima qualità della pellicola: la voce off del protagonista che racconta la sua situazione, il ralenti, la visione del manifesto Escape to Paradise che pubblicizza i viaggi alle Bahamas, vagheggiata meta del protagonista, sono la premessa del lungo flashback che di fatto costituisce l'intero film nella sua circolare perfezione narrativa.
Si torna al 1975, quando un vizio di forma permette al suo avvocato Dave Kleinfeld (un riccioluto Sean Penn) di farlo uscire dalla prigione di Louisberg dopo soli cinque dei trent'anni ai quali era stato condannato e il ritorno in città per Carlito è spaesante, per quanto è cambiato lo scenario. Il parallelo tra questo disagio che viene paragonato a ciò che accade ai protagonisti dei "vecchi western" la dice lunga sulla metacinematograficità dei film di De Palma, senza la quale il suo cinema perderebbe quella che, insieme all'enorme tecnica, è la sua caratteristica principale.
E dopo il bell'inizio, la splendida sequenza in cui Carlito accompagna il cugino nel retrobottega di un barbiere, dove si cela una bisca in cui si incontrano spacciatori, gangster e prostitute, rappresenta uno dei punti più alti del film, una vera e propria lezione di regia. Sceneggiatura, suspense crescente, mdp che segue il movimento circolare del protagonista attorno al tavolo da biliardo (o viceversa?) e la zona più importante della sala controllata attraverso il riflesso degli occhiali di uno dei malviventi fino alla deflagrazione nella furia violenta dello scontro, attuato con l'ausilio delle stecche da biliardo oltre che delle pistole, sono una sinfonia cinematografica in cui tutto funziona alla perfezione, in una splendida citazione aggiornata dell'omicidio de L'altro uomo (1951), che Hitchcock mostrava proprio attraverso il riflesso degli occhiali-dispositivo.
Tutta la pellicola, però, come sempre in De Palma, è una sequela di piani-sequenza, soggettive, parasoggettive, split screen (vera a propria cifra stilistica depalmiana che autorizza ad usare il "metodo morelliano" anche per il cinema) e specchi, altro motivo molto caro al regista e che, oltre a quella già citata, torna in una bella scena di seduzione da parte di Gail (Penelope Ann Miller), che prosegue con lo sguardo di Carlito da dietro la porta socchiusa, alla Jack Torrance in Shining (Kubrick 1980) per intenderci, e termina con l'immancabile bacio circolare hitchcockiano di Vertigo (1958). Le autocitazioni sono continuamente dietro l'angolo: il litigio tra Carlito e Benny Blanco (John Leguizamo) per Steffie (Ingrid Rogers), con la mdp che evita le inquadrature con stacchi in controcampo, ma procede spostandosi da un lato all'altro, riprende un famoso passaggio di Obsession (1978), così come il microfono-spia sul corpo di Lalin (Viggo Mortensen) recupera uno degli elementi basilari della trama di Blow out (1981), ma anche la bellissima sequenza con l'inseguimento in metro e la sparatoria alla stazione, in cui la scala mobile diventa protagonista, sembra un aggiornamento moderno della scalinata de Gli intoccabili a sua volta presa dal celeberrimo La corazzata Potemkin (Ėjzenštejn 1925). Ma cos'è il cinema di De Palma se non cinema classico aggiornato?
Eccezionale è anche il movimento della mdp che corre all'indietro nel club gestito da Carlito e riprende in piano-sequenza la lunga passeggiata di Saso (Jorge Porcel) e Benny Blanco e quello simile, ma molto più accelerato e con un punto di vista impossibile, dal centro della baia, che avrà un ruolo determinante nel prosieguo della trama, che accompagna l'arrivo dell'avvocato David al penitenziario.
I volti "imprigionati" di Carlito e di Jack... |
Naturalmente non può mancare la complicata storia d'amore, topos del genere, e alla quale De Palma riserva altri elementi per cinefili. L'apparizione di Gail, lasciata prima della prigione come un'aspirante ballerina e ora disposta a sbarcare il lunario anche come lapdancer in un locale, rimanda inequivocabilmente alla Deborah di C'era una volta in America (Leone 1984) e vedere Carlito che la cerca in una New York sotto la pioggia fa pensare a Singing in the rain (Kelly - Donen 1952), mentre quando guarda nelle finestre del palazzo di fronte l'omaggio è ovviamente all'amato Hitchcock e al suo La finestra sul cortile (1954).
La colonna sonora aiuta a completare il contesto alla vicenda, ambientata alla fine degli anni Settanta, con brani disco come Rock The Boat (The Hues Corporation), Rock Your Baby (Ed Terry), TSOP - The Sound of Philadelphia (MFSB/The 3rd Degree), Got To Be Real (Cheryl Lynn), Lady Marmalade (Patti LaBelle) o l'indimenticabile That's The Way - I Like It (KC & The Sunshine Band), ma anche lenti come You Are So Beautiful (Billy Preston) o pezzi latini come la famosissima Oye Como Va (Carlos Santana).
La sceneggiatura è impeccabile e sarebbe lungo l'elenco delle battute che lasciano il segno, ma basti ricordare il monologo di Carlito davanti al giudice all'inizio del film, i consigli al cugino (?) - "i favori finiranno per rovinarti se ne fai troppi" -, e, come già evidenziato, i diversi rimandi al cinema western. Uno di questi - "non c'è più nessun controllo in questo quartiere, ci sono solo cowboy che si scannano" - dice molto sulla personalità contraddittoria di Carlito e su quel bisogno di ordine che da una parte agogna e dall'altra è proprio lui che contribuisce a rendere impossibile.
Al protagonista vengono riservate anche altre bellissime linee di sceneggiatura. In una di queste viene condensato un racconto con il quale Carlito spiega a Gail le proprie origini in un quartiere difficile, in cui i portoricani erano stretti dai confini stabiliti dagli afro-americani e dagli italiani: "se uno voleva andare a Central Park a vedere i laghetti erano cazzi suoi. E allora che fai? Ci vai lo stesso, no?" In un'altra ancora Carlito commenta con una frase che sembra essere il suo passaggio di consegne: "arrivati a una certa età si ricorda sempre un motivo per cui qualcuno vuole il tuo male e pensi che abbiano tutti ragione".
Carlito in fondo è un eroe romantico, un criminale di una generazione tramontata, deciso a dare un taglio con la malavita e a cercare la pace e il ritiro alle Bahamas - non a caso il cartello pubblicitario riporta la frase Escape to Paradise e il suo nightclub si chiama El Paraiso - ma è anche un personaggio da tragedia classica, il cui fato non ha nessuna intenzione di lasciarlo fare, cosicché quel paradiso rimarrà una chimera e il personaggio si sentirà come lo scarafaggio che egli stesso intrappola all'interno di un bicchiere, in una delle metafore più esplicite del film...
Per tutto questo Carlito va a far compagnia, di diritto, ad una lunga sequela di gangster che hanno fatto la storia del cinema, al pari de Il piccolo Cesare di Edward G. Robinson (Le Roy 1931) o di Nemico pubblico di James Cagney (Wellman 1931) o, ancor meglio, dello Scarface di Paul Muni (Hawks 1932), che in una serie di infiniti rimandi venne rigirato da De Palma nel 1983 proprio con Al Pacino come protagonista...
La sceneggiatura è impeccabile e sarebbe lungo l'elenco delle battute che lasciano il segno, ma basti ricordare il monologo di Carlito davanti al giudice all'inizio del film, i consigli al cugino (?) - "i favori finiranno per rovinarti se ne fai troppi" -, e, come già evidenziato, i diversi rimandi al cinema western. Uno di questi - "non c'è più nessun controllo in questo quartiere, ci sono solo cowboy che si scannano" - dice molto sulla personalità contraddittoria di Carlito e su quel bisogno di ordine che da una parte agogna e dall'altra è proprio lui che contribuisce a rendere impossibile.
Al protagonista vengono riservate anche altre bellissime linee di sceneggiatura. In una di queste viene condensato un racconto con il quale Carlito spiega a Gail le proprie origini in un quartiere difficile, in cui i portoricani erano stretti dai confini stabiliti dagli afro-americani e dagli italiani: "se uno voleva andare a Central Park a vedere i laghetti erano cazzi suoi. E allora che fai? Ci vai lo stesso, no?" In un'altra ancora Carlito commenta con una frase che sembra essere il suo passaggio di consegne: "arrivati a una certa età si ricorda sempre un motivo per cui qualcuno vuole il tuo male e pensi che abbiano tutti ragione".
Carlito in fondo è un eroe romantico, un criminale di una generazione tramontata, deciso a dare un taglio con la malavita e a cercare la pace e il ritiro alle Bahamas - non a caso il cartello pubblicitario riporta la frase Escape to Paradise e il suo nightclub si chiama El Paraiso - ma è anche un personaggio da tragedia classica, il cui fato non ha nessuna intenzione di lasciarlo fare, cosicché quel paradiso rimarrà una chimera e il personaggio si sentirà come lo scarafaggio che egli stesso intrappola all'interno di un bicchiere, in una delle metafore più esplicite del film...
Per tutto questo Carlito va a far compagnia, di diritto, ad una lunga sequela di gangster che hanno fatto la storia del cinema, al pari de Il piccolo Cesare di Edward G. Robinson (Le Roy 1931) o di Nemico pubblico di James Cagney (Wellman 1931) o, ancor meglio, dello Scarface di Paul Muni (Hawks 1932), che in una serie di infiniti rimandi venne rigirato da De Palma nel 1983 proprio con Al Pacino come protagonista...
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