lunedì 26 ottobre 2015

Io sono Ingrid (Björkman 2015)

"Non pensa che le radici siano necessarie?" "No!"
È questo scambio di battute tra un giornalista e una Ingrid Bergman ormai anziana che meriterebbe di essere il sottotitolo del prezioso documentario di Stig Björkman, perché questa risposta, netta, diretta, senza appello, racconta meglio di tante parole la personalità di una delle più grandi attrici di sempre. 
Nata in Svezia nel 1915, dove visse i primi ventiquattro anni della sua vita, esordendo sul grande schermo a sedici e diventando una star nazionale. Perdute troppo presto le figure genitoriali - la madre nel 1918 e il padre nel 1929 -, Ingrid passò dieci negli Stati Uniti, messa sotto contratto da David O. Selznick, otto in Italia, dopo la celeberrima lettera a Roberto Rossellini, venti in Francia, e gli ultimi anni in Inghilterra.
La narrazione accompagna lo spettatore, attraverso foto, lettere personali, pagine di diario, interviste e tantissimi filmati, soprattutto quelli con cui Ingrid stessa, grazie all'esempio del padre - "lui filmava me, io filmo il mondo" -, amava immortalare gli affetti familiari e i momenti di felicità.
Sono affascinanti le immagini che la vedono sedicenne nel primo ruolo ottenuto, quello di semplice comparsa, ed emoziona sentirle dire che sin da bambina giocava in solitudine inventando dei personaggi, di fatto anticipando, senza ancora saperlo, quello che sarebbe stato il suo mestiere di una vita. Sono contrastanti i suoi sentimenti alla partenza dalla Svezia nel 1939, quando era già moglie di Peter Lindstrom, a cui scrive "mio unico amore", "non ti lascerò mai", frasi da donna innamorata ma ancora ignara della vita, e già madre di Pia, che anche da adulta rimarrà critica rispetto al forse poco materno "non chiedo molto, voglio tutto".
Eppure Ingrid, che i figli descrivono insicura, appare decisa e lucida, e anche quando non vede la figlia per mesi scrive "non si può avere tutto", ma allo stesso tempo in una lettera dal set di Casablanca (Curtiz 1942) chiarisce "le cose vanno bene [...] ho tutto quello che ho sempre voluto".
E ancora: l'arrivo a casa Selznick, l'amicizia con la moglie Irene, il remake di Intermezzo (Ratoff 1939), già girato in Svezia qualche anno prima (Molander 1936), l'Oscar per Angoscia (Cukor 1944) e la partenza per l'Europa al seguito delle truppe statunitensi nel 1945. È qui che il suo amore per Peter iniziò a scricchiolare, dopo aver conosciuto l'affascinante fotografo ungherese Robert Capa, che contribuì indubbiamente ad ampliare gli orizzonti dell'attrice e che le consiglierà di "non firmare contratti che inevitabilmente ti trasformeranno in un'azienda". Sono gli anni di un'altra straordinaria esperienza professionale, quella dei film con Alfred Hitchcock (Io ti salverò Notorious), su cui spende parole eccezionali, così come nei confronti di Cary Grant - "uno dei più simpatici con cui ho lavorato" -, un coprotagonista dal quale si aspettava atteggiamenti da divo.
E, così, come il successo raggiunto in Svezia la spinse a cercare altro negli Stati Uniti, la gloria di Hollywood e una quantomai prolifica irrequietezza - "ho visto tante cose, ma non sono mai abbastanza", "non so mai che felicità voglio" - la portò in Italia, dopo aver visto Roma città aperta e Paisà, convinta che esistesse un cinema diverso di cui voleva essere parte. Stromboli (1950) segnò l'inizio del rapporto sentimentale e professionale con Roberto Rossellini, nonché il conseguente terremoto mediatico che la coinvolse, vittima di benpensanti e perbenisti, che la condannarono per quell'amore e per la nuova famiglia. Su tutte restano nella memoria le assurde parole di un senatore di Washington che arrivò ad affermare che "dalle ceneri di Ingrid Bergman nascerà una Hollywood migliore", frase a cui idealmente anni dopo risponderà la diva stessa riassumendo la propria parabola con un significativo "sono passata da santa a puttana e poi ancora santa".
Da quella osteggiata unione nacquero i tre "figli italiani", come li chiama la Bergman stessa: Robertino e poi le gemelle Isabella e Isotta Ingrid, che oggi ricordano la madre rispettivamente per il suo coraggio silenzioso, per il fascino e la timidezza, per l'energia. E, come nel caso di Pia, li vediamo crescere attraverso i filmini della madre, a colori in anni in cui il cinema era ancora spesso in bianco e nero, nella bella villa di Santa Marinella, dove la conobbe anche la nipote di Rossellini, Fiorella Mariani, che oggi ricorda la prima volta che vide Ingrid, o meglio i suoi piedi sulla sabbia, un dettaglio che faceva sorridere anche l'attrice svedese.
A quegli anni risale il ritorno al personaggio di Giovanna d'Arco, di cui Ingrid si dichiarava incallita collezionista (parla di libri, medaglie e statuette), ruolo già interpretato a Hollywood nel 1948 sotto la direzione di Victor Fleming, e che ripropose con Giovanna d'Arco al rogo (Rossellini 1954) e con la lunga tournée teatrale in giro per l'Europa - bella la testimonianza del figlio Robertino che ricorda quanto non tollerasse la scena del rogo della madre - che però le comportò le dolorose critiche proprio nella sua Svezia.
E sono ovviamente quegli gli anni dell'inevitabile ritorno dell'irrequietezza di una donna troppo libera per accettare la chiusura e l'esclusivismo professionale richiestole da Roberto Rossellini, che le permise di recitare solo in Eliana e gli uomini di Jean Renoir (1956). Ma poi ci fu il ritorno a Hollywood con Anastasia (Litvak 1956), interpretazione per cui vinse il suo secondo Oscar (il terzo arriverà nel 1975 per Assassinio sull'Orient-Express - Lumet 1974), Indiscreto (Donen 1958), Le piace Brahms? (Litvak 1961) e Fiore di cactus (Saks 1969).
Dopo il divorzio da Rossellini, l'ultimo grande amore, quello per l'impresario teatrale svedese Lars Schmidt, con cui Ingrid si meravigliò di avere tante cose in comune e con cui riuscì a riunire i suoi quattro figli, in una splendida famiglia allargata.
Per gli ultimi anni di Ingrid, oltre alle parole dei figli, Björkman ci regala altre due importanti testimonianze: quella di Sigourney Weaver, che da giovanissima esordiente si ritrovò a lavorare con la Bergman a teatro a New York e, infine, lo splendido racconto di Liv Ullmann che in Sinfonia d'autunno di Ingmar Bergman (1978) interpretava la figlia della grande attrice, e che la ricorda in un furibondo litigio con il regista svedese, che alla fine la convinse ad accettare una scena in cui doveva essere una madre cedevole e non rigida come avrebbe inizialmente preferito.
Infine il tumore al seno che la colpì sin dal 1973, senza piegarla e senza impedirle di lavorare ancora per nove anni fino a spegnersi nel 1982, anno in cui interpretò Golda Meir nella miniserie tv Una donna di nome Golda, diretta da Alan Gibson che riuscì a farla recitare senza trucco rispondendo al terrore di Ingrid di perdere tutti i suoi fans con una bellissima risposta: "ne avrai altri".
I figli e soprattutto Pia l'avrebbero voluta più tempo al loro fianco, ma avere come madre una diva come Ingrid Bergman significava doverla condividere con il mondo intero.
Un pezzo di storia del cinema racchiuso in un documentario da non perdere...

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