Pochi avvenimenti furono così strumentalizzati negli anni della Guerra Fredda quanto la sfida del 1972 a Reykjavík tra il campione del mondo di scacchi Boris Spasskij e lo sfidante Boris Fischer.
Liz Garbus incentra il suo documentario su quell'evento, approfondendo il contesto della partita, le conseguenze che causò, cosa significò per gli Stati Uniti, fino ad addentrarsi nella complessa personalità di Bobby Fischer e raccontando velocemente anche il resto della sua vita, dall'infanzia alla scelta di isolarsi dopo quel momento di ribalta, fino alla morte.
La sfida Fischer-Spasskij sin dagli anni Settanta venne paragonata all'incontro di pugilato del secolo, quel Rumble in the jungle, come fu ribattezzato, che Mohammed Alì e John Frazier combatterono nel 1974. Ma il parallelo tra i due sport è precedente e comprende prima di tutto il ring-scacchiera, un comune spazio quadrato in cui i due contendenti lottano fino alla fine, senza esclusione di colpi, sul piano fisico e su quello mentale, in una consonanza che negli ultimi tempi, per esempio, ha affascinato anche l'artista olandese Iepe Rubingh che, ispirandosi al romanzo a fumetti Freddo equatore di Enki Bilal (1992), ha ideato il Chess boxing, una disciplina in cui gli atleti si sfidano in entrambi gli sport.
La Garbus fa suo questo parallelo anche cinematograficamente e appare evidente l'influenza sul suo documentario di uno dei capolavori assoluti del genere, come Quando eravamo re (Gast 1996), che racconta proprio il celeberrimo incontro di Kinshasa. E in tal senso i filmati che mostrano la preparazione atletica di Fischer, in vista dalla grande sfida, sono quantomai significativi.
“Gli scacchi tengono prigioniero il giocatore, incatenano mente e cervello così che la libertà interiore del più forte soffra”. Con questa frase di Albert Einstein si apre il film su Bobby Fischer, segnando in modo chiaro l'importanza della libertà in una vicenda come questa: la libertà assente in Unione Sovietica, dove gli scacchi erano inseriti nei programmi scolastici poiché considerati il "simbolo della superiorità intellettuale del regime sull'occidente decadentista", ma tutto sommato assente anche negli Stati Uniti, dove un genio di questo sport che già a sei anni era ritenuto un maestro - "se si va avanti per dovere non si diventa ossessivi" - e che a quindici si laureò campione USA, fu "usato" proprio per combattere una guerra non sua.
È vero che gli scacchi sin dal VI secolo sono stati letti come una metafora della strategia bellica, ma ripensare oggi a come si fusero, o meglio furono forzati a fondersi, con la guerra non combattuta per antonomasia nel 1972, arrivando persino a coinvolgere Eisenhower, che secondo alcuni sarebbe intervenuto in prima persona per convincere Fischer a ripresentarsi a giocare dopo la seconda partita, sembra davvero incredibile. La vittoria di uno statunitense sull'impero scacchistico sovietico fu un avvenimento di portata enorme, oggi difficilmente comprensibile a pieno, ma basti pensare che solo dopo quella vittoria gli scacchi divennero un fenomeno pop in tutto l'occidente, trasformandosi in un gioco non più destinato esclusivamente a nobili e alto borghesi, ma diffondendosi anche tra i ceti meno abbienti, con degli ovvi risvolti sociali e commerciali.
E quella sfida al meglio delle 24 partite viene narrata dalla Garbus in maniera dettagliata e appassionante, mostrandoci le premesse, le polemiche, il ritardo di Fischer al primo incontro, il mancato arrivo alla seconda, la richiesta di eliminare le telecamere nella terza; il grave errore che più avanti gli costò una sconfitta e che una foto che lo ritrae con le mani nei capelli ha immortalato per sempre, e così via fino al trionfo che lo consacrò campione del mondo a 29 anni.
Tutto quello che accadde aldilà della partita di scacchi ebbe conseguenze disastrose sulla psiche di un ragazzo con una storia privata davvero complicata: figlio dell'attivista ebrea Regina (sì, proprio come uno dei pezzi degli scacchi!), che solo a nove anni gli rivelò di non essere stato concepito dall'uomo che aveva sempre chiamato papà e che venne controllata dalla CIA perché considerata una spia comunista; abbandonato molto presto; una personalità già controversa, ai limiti dell'autismo, non poté che peggiorare dopo essere diventato campione del mondo. Fu così che abbracciò prima la chiesa evangelica di Herbert W. Armstrong e poi un antisemitismo convinto quanto assurdo, tanto più perché ebreo egli stesso; ossessionato dal controllo del governo, paranoico al punto da farsi rimuovere le otturazioni ai denti temendo gli fosse stato installato qualcosa dai servizi segreti. I suoi disturbi mentali gli fecero ripercorrere i passi di Paul Morphy, il più grande campione di scacchi del XIX secolo, e anche in questo caso la Garbus ci offre un piccolo documentario nel documentario sulla storia dei campioni di questo sport.
Scomparso per quasi vent'anni, Fischer ricomparve ad inizio anni '90 e, nel 1992, accettò di sfidare di nuovo Spasskij, in un incontro che ancora una volta è facilmente paragonabile a quelli nostalgici tra pugili ormai fuori dall'agonismo, organizzati più per denaro che per reale interesse sportivo. La partita, che si svolse a Belgrado, allora sotto embargo statunitense per la guerra, fu la causa di ulteriori problemi per Fischer che, in una famosa conferenza stampa che la Garbus inserisce nel montaggio, sputò sulla lettera con cui il suo governo gli chiedeva di non partecipare a quella gara. La condanna successiva, che di fatto lo rese un esule, e l'arresto del 2004 in Giappone, furono le inevitabili conseguenze del suo modo di essere. Passò così gli ultimi anni della sua vita in Islanda, dove venne accolto come un eroe, perché nel 1972 aveva dato lustro al paese vincendo la partita più famosa del secolo nella capitale. Proprio a Reykjavík morì nel 2008 con l'ennesimo rifiuto autolesionista, rifiutando la dialisi che avrebbe potuto aiutarlo contro la sua insufficienza renale...
Il titolo del documentario della Garbus la dice lunga sulla personalità di Bobby Fischer, ma a chiarirla meglio sono forse proprio le parole scritte dal suo più famoso sfidante, Spasskij, in un'emozionante lettera a George Bush senior, per chiedere la grazia nei confronti di Fischer, poco dopo l'arresto in Giappone: "È un uomo onesto e altruista. Ma è assolutamente asociale. Non si adatta al modo di vivere comune. Ha un elevatissimo senso di giustizia e non è disposto a scendere a compromessi, né con la sua coscienza, né con chi lo circonda. Quasi tutto ciò che fa, nuoce in primo luogo a lui stesso".
E pensare che la propria difficoltà di socializzare e di accettare il "modo di vivere comune", come dice Spasskij, gli era già ben chiara a venticinque anni, quando, in un'intervista che all'interno del documentario riveste un'importanza enorme proprio per questa lucida consapevolezza, Fischer sostiene che sarebbe stato meglio avere più equilibrio... come dargli torto?
La sfida Fischer-Spasskij sin dagli anni Settanta venne paragonata all'incontro di pugilato del secolo, quel Rumble in the jungle, come fu ribattezzato, che Mohammed Alì e John Frazier combatterono nel 1974. Ma il parallelo tra i due sport è precedente e comprende prima di tutto il ring-scacchiera, un comune spazio quadrato in cui i due contendenti lottano fino alla fine, senza esclusione di colpi, sul piano fisico e su quello mentale, in una consonanza che negli ultimi tempi, per esempio, ha affascinato anche l'artista olandese Iepe Rubingh che, ispirandosi al romanzo a fumetti Freddo equatore di Enki Bilal (1992), ha ideato il Chess boxing, una disciplina in cui gli atleti si sfidano in entrambi gli sport.
La Garbus fa suo questo parallelo anche cinematograficamente e appare evidente l'influenza sul suo documentario di uno dei capolavori assoluti del genere, come Quando eravamo re (Gast 1996), che racconta proprio il celeberrimo incontro di Kinshasa. E in tal senso i filmati che mostrano la preparazione atletica di Fischer, in vista dalla grande sfida, sono quantomai significativi.
È vero che gli scacchi sin dal VI secolo sono stati letti come una metafora della strategia bellica, ma ripensare oggi a come si fusero, o meglio furono forzati a fondersi, con la guerra non combattuta per antonomasia nel 1972, arrivando persino a coinvolgere Eisenhower, che secondo alcuni sarebbe intervenuto in prima persona per convincere Fischer a ripresentarsi a giocare dopo la seconda partita, sembra davvero incredibile. La vittoria di uno statunitense sull'impero scacchistico sovietico fu un avvenimento di portata enorme, oggi difficilmente comprensibile a pieno, ma basti pensare che solo dopo quella vittoria gli scacchi divennero un fenomeno pop in tutto l'occidente, trasformandosi in un gioco non più destinato esclusivamente a nobili e alto borghesi, ma diffondendosi anche tra i ceti meno abbienti, con degli ovvi risvolti sociali e commerciali.
E quella sfida al meglio delle 24 partite viene narrata dalla Garbus in maniera dettagliata e appassionante, mostrandoci le premesse, le polemiche, il ritardo di Fischer al primo incontro, il mancato arrivo alla seconda, la richiesta di eliminare le telecamere nella terza; il grave errore che più avanti gli costò una sconfitta e che una foto che lo ritrae con le mani nei capelli ha immortalato per sempre, e così via fino al trionfo che lo consacrò campione del mondo a 29 anni.
Tutto quello che accadde aldilà della partita di scacchi ebbe conseguenze disastrose sulla psiche di un ragazzo con una storia privata davvero complicata: figlio dell'attivista ebrea Regina (sì, proprio come uno dei pezzi degli scacchi!), che solo a nove anni gli rivelò di non essere stato concepito dall'uomo che aveva sempre chiamato papà e che venne controllata dalla CIA perché considerata una spia comunista; abbandonato molto presto; una personalità già controversa, ai limiti dell'autismo, non poté che peggiorare dopo essere diventato campione del mondo. Fu così che abbracciò prima la chiesa evangelica di Herbert W. Armstrong e poi un antisemitismo convinto quanto assurdo, tanto più perché ebreo egli stesso; ossessionato dal controllo del governo, paranoico al punto da farsi rimuovere le otturazioni ai denti temendo gli fosse stato installato qualcosa dai servizi segreti. I suoi disturbi mentali gli fecero ripercorrere i passi di Paul Morphy, il più grande campione di scacchi del XIX secolo, e anche in questo caso la Garbus ci offre un piccolo documentario nel documentario sulla storia dei campioni di questo sport.
Il titolo del documentario della Garbus la dice lunga sulla personalità di Bobby Fischer, ma a chiarirla meglio sono forse proprio le parole scritte dal suo più famoso sfidante, Spasskij, in un'emozionante lettera a George Bush senior, per chiedere la grazia nei confronti di Fischer, poco dopo l'arresto in Giappone: "È un uomo onesto e altruista. Ma è assolutamente asociale. Non si adatta al modo di vivere comune. Ha un elevatissimo senso di giustizia e non è disposto a scendere a compromessi, né con la sua coscienza, né con chi lo circonda. Quasi tutto ciò che fa, nuoce in primo luogo a lui stesso".
E pensare che la propria difficoltà di socializzare e di accettare il "modo di vivere comune", come dice Spasskij, gli era già ben chiara a venticinque anni, quando, in un'intervista che all'interno del documentario riveste un'importanza enorme proprio per questa lucida consapevolezza, Fischer sostiene che sarebbe stato meglio avere più equilibrio... come dargli torto?
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