giovedì 12 febbraio 2015

La mia droga si chiama Julie (Truffaut 1969)

Il nono film di François Truffaut è uno dei tanti casi in cui il titolo italiano è inutilmente lontano da quello originale, il più immaginifico La sirène du Mississipi, ripreso dall'edizione francese del romanzo di William Irish, Waltz in to Darkness, di cui la pellicola costituisce l'adattamento e che era già stato citato da Truffaut mettendone una copia in mano ad Antoine Doinel in Baci rubati (1968).
Opera profondamente cinefila e lontana dagli stravolgimenti di quegli anni, causò al regista francese le accuse di un atteggiamento reazionario e politicamente disimpegnato, nonostante lo stesso film del ciclo Doinel dell'anno prima iniziasse con una dedica ad Henri Langlois, allontanato dalla Cinémathèque française.
Truffaut sceglie il soggetto e scrive anche la sceneggiatura tutto da solo, modificando alcuni importanti elementi del romanzo originale: ambienta nel presente la vicenda che Irish narra nell'Ottocento e sposta l'azione a Reunion, isola francese di fronte alla costa del Madagascar, invece che a New Orléans. La spiegazione del toponimo, nato dalla "riunione" tra guardia nazionale e rivoluzionari, è data in apertura dalla stessa voce del regista, occasione per riproporre una sequenza de La Marsigliese di Jean Renoir (1937), l'amato cineasta a cui viene dedicato il film.
Tra l'altro, proprio il mutamento geografico rende l'intera storia una vera Aventure malgache (Hitchcock 1944), mettendo in relazione il film con l'universo hitchcockiano, a cui, lo vedremo, si rifà anche per elementi più rilevanti.
Il nome del fiume statunitense - per quanto con una sola p - diventa così riferimento all'imbarcazione con cui la protagonista, Julie Roussel (Catherine Deneuve), arriva a Reunion, per rispondere ad un annuncio matrimoniale di Louis Mahe (Jean-Paul Belmondo), un ricco industriale del tabacco.
Non un soggetto indimenticabile, a dire il vero, ma il mistero che aleggia intorno alla storia e, soprattutto, la capacità di analizzare i sentimenti e le loro conseguenze, rendono tutto pienamente truffautiano. A questo si aggiunga la folgorante bellezza dei due attori principali e il film si eleva nonostante le indubbie debolezze di scrittura. Fa eccezione la divertente narrazione della leggenda di come si sia popolata l'isola di Reunion, dove in origine sarebbero state inviate 32 donne, che le pestilenze ridussero a cinque, cinque orfanelle o, meglio, cinque prostitute, come spiega Louis in un momento di realismo dettato da un litigio con Julie.
Che Truffaut dia il meglio di sé come regista e non come sceneggiatore è evidente in più sequenze, ma due su tutte meritano una menzione particolare. La prima è anche la prima inquadratura di Catherine Deneuve, resa come una vera e propria apparizione: Louis vede Julie con un grande cappello di paglia, un vestito estivo che svolazza al vento e una gabbia in vimini a forma di fiasca per il suo canarino (evidente metafora della vita della protagonista), che fa di questa immagine un'icona della storia del cinema. E poco importa che il personaggio di Julie dica frasi da donna insicura inconsapevole della propria bellezza e che i due bellissimi protagonisti si ritrovino a sposarsi per procura, due elementi che rendono tutto poco credibile e contro i principi della verosimiglianza.
La seconda sequenza è forse l'immagine più bella del film, quella in cui Louis è a colazione nella sua villa, mentre Julie sul retro scende e risale sulla scala, palesando un'irrequietezza che denuncia intrighi in atto. L'inquadratura è curata secondo un accorgimento degno della suspense hitchcockiana, che tante volte il regista inglese spiega nella sua celebre intervista a Truffaut, che sembra aver chiara la lezione, mostrando Louis ignaro di quello che accade alle sue spalle, ma fornendo a noi spettatori l'indizio che qualcosa non quadra nella loro relazione.
L'algida bellezza di Julie e la sua impassibilità in ogni situazione creano un effetto di distanza e di straniamento (per alcuni versi simile a quello che genera il personaggio che la Deneuve interpreta in Repulsion - Polanski 1965): la donna non reagisce nemmeno alla morte del suo apparentemente adorato canarino e, per vederla provare un'emozione, dobbiamo attendere la prima notte dopo le nozze, in cui dichiara di non poter dormire serenamente con la luce spenta.
Louis se ne innamora perdutamente, nonostante le stranezze, e il volto della bellissima Julie diviene per lui un'ossessione così costante da farne persino l'immagine portante dei pacchetti di sigarette della sua azienda. In questa prima fase della storia si inserisce quella che è probabilmente la battuta più famosa del film e che segna l'amore incondizionato di Louis: "Julie sei adorabile. Sai cosa vuol dire adorabile? Vuol dire degna di adorazione... adorabile".
I segreti, che inizialmente accrescono la portata del fascino di Julie, verranno spiegati solo più avanti nella narrazione, dando alla pellicola, ancora una volta, un tocco profondamente hitchcockiano: la sorella Berthe, che non avendo ricevuto più notizie si mette in cerca di Julie, ricorda molto la Lila-Vera Miles sorella della Janet Leigh di Psycho (1960), mentre il personaggio di Catherine Deneuve è di fatto una novella Kim Novak de La donna che visse due volte (1958). E in effetti la donna ha due vite distinte e parallele. Così come nel capolavoro del regista inglese Madeleine e Judy, anche Julie e Marion (non a caso il nome di Janet Leigh in Psycho) sono donne profondamente diverse: la prima si mostra una docile moglie fedele e servizievole, la seconda una entreineuse da locali notturni (il Phoenix, peraltro, come il volatile mitologico che rinasce dalle proprie ceneri e che vive almeno due volte!).
E Louis, come lo Scottie di James Stewart, non la prende affatto bene quando scopre di essere stato ingannato ma, proprio come in quel caso, non può fare nulla se non innamorarsi anche al secondo incontro. Né la pistola acquistata per il delitto passionale, né aver personalmente ingaggiato un detective per rintracciare Julie, né la consapevolezza di non rappresentare nulla per lei, impediranno a Louis di cedere di nuovo e di far tutto per vivere con l'oggetto del suo amore, pur se come fuggitivi tra le montagne innevate della Svizzera.
L'irrazionalità del sentimento è ben riassunta in un paio di battute pronunciate da Louis, con cui sottolinea la differenza tra le sensazioni che aveva quando scriveva lettere ad una donna sconosciuta ed ora che Julie è apparsa: "Scrivendo a lei cercavo qualcosa di definitivo, poi sei arrivata tu e hai portato la precarietà", "Non so se sono felice, ma non posso vivere senza di lei".
Tutto ciò che fa Julie per amore, invece, è incerto e persino quando incide su vinile alcune frasi piene di affetto, appena uscita dalla sala di registrazione, il disco le cade in strada mentre passa un'auto che lo fa in mille pezzi.
Eppure, nonostante la sua distanza da certi sentimenti, Julie arriverà a chiedere a Louis se l'amore è quella cosa che fa male in alcuni momenti... segno che qualcosa inizia a sentire.
Molti, infine, i passi del film che rimandano al cinema e ai diversi generi, in un gioco tipico truffautiano: dalla sequenza slapstick montata a ritmo accelerato, con Julie che rimane a seno nudo mentre si cambia seduta in un'auto decappotabile, causando l'incidente di un automobilista che esce di strada, a Louis che va al cinema per vedere Arizona Jim, personaggio dei racconti western dello scrittore protagonista de Il delitto del signor Lange (Renoir 1936); dal detective Comolli (nomi sempre italiani per i poliziotti in Truffaut, che in Finalmente domenica chiama il commissario Santelli) che dice che "gli uomini perferiscono le bionde", ai riferimenti al cinema d'animazione, con l'albergatrice di Aix en Provence di cui Marion nota la somiglianza con Olivia di Braccio di Ferro e la striscia a fumetti su un giornale che riproduce alcuni fotogrammi di Biancaneve (Disney 1940).
Non il miglior Truffaut, ma tanto tanto Truffaut...

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