domenica 22 febbraio 2015

Turner (Leigh 2014)

Mike Leigh si lascia andare ad un film celebrativo su Joseph Mallord William Turner (1775-1851), il pittore inglese più famoso della storia e, nel farlo, incorre in un eccessivo didascalismo e in un'approssimativa semplificazione del personaggio, in un risultato che può essere paragonato a quello del recente Il giovane favoloso (Martone 2014).
E con questo nulla si tolga alla notevole interpretazione di Timothy Spall, alla sua quarta pellicola con il regista di Segreti e bugie (1996), che però, come nel precedente italiano, talvolta scade nel macchiettistico. Così vediamo William Turner appena tornato dall'Olanda, dove ha visto e apprezzato l'arte di Rembrandt, parlare col padre che gli fa da garzone di bottega trasportando tele, macinando colori o persino sbarbandolo. Bill è stimolato da nature morte al mercato, ma di nature morte nella produzione di Turner non ce ne sono, e, come fossimo nella casa di un collezionista del Seicento, in cui  il fine era marinianamente "la maraviglia", il pittore fa aspettare i potenziali acquirenti in un'anticamera al buio prima di entrare nella stanza che contiene i dipinti in modo da farne apprezzare maggiormente la luce.
La misantropia di Turner è il tratto più caratteristico del personaggio: la sua figura diventa caricaturale quando lo sentiamo letteralmente grugnire ad ogni risposta. La sua idiosincrasia nei confronti del prossimo - che non fa distinguo nemmeno per le due figlie, Evelina e Georgiana, né per la domestica con cui talvolta consuma del sesso improvvisato e privo di trasporto - sembra ridursi con Sophia Booth, l'affabile locandiera da cui il pittore affitta una stanza che dà sul mare a Margate, la cittadina a ridosso delle bianche scogliere di Dover, in cui William si ritira per dipingere molte delle sue marine. Sophia inizialmente sarà un'ospite gioviale ed accogliente ma, divenuta vedova, troverà in Bill il suo compagno, ignara per buona parte del tempo di aver ospitato per anni nella sua piccola pensione un pittore così famoso, che a lei si è sempre presentato come il signor Mallord.
Mike Leigh mostra comunque la sua mano: la si nota quando riesce a inserire in una sola inquadratura ben sei personaggi che si alternano su diversi piani in profondità, all'arrivo di zia Sara con le due figlie di Bill, o in un'ellissi che passa da una pennellata di biacca di un dipinto alla neve vera e propria di una montagna.
Il regista, inoltre, dimostra la sua conoscenza artistica a più ampio raggio non solo nelle già citate nature morte iniziali, ma anche in diverse inquadrature che sembrano riprodurre dipinti di Vermeer, soprattutto nelle sequenza ambientate a Margate: gli interni delle abitazioni, le donne affaccendate in occupazioni domestiche (con tanto di cuffiette che ricordano la moda fiamminga), la luce che arriva dal fondo del quadro/inquadratura. A tutto questo contribuisce, evidentemente, anche la buona fotografia di Dick Pope, che gli è valsa la nomination all'Oscar, al pari della scenografia di Suzie Davis, dei costumi di Jacqueline Durran e della colonna sonora di Gary Yershon.
Annibale valica le Alpi, Tate Britain, 1812
Si vedono relativamente poco i dipinti di Turner, che spesso compaiono già realizzati alle pareti delle residenze dei collezionisti, del suo atelier o dell'accademia, dove, in una delle scene più "a effetto", lo vediamo inserire una macchia di colore rosso che sorprende tutti prima in negativo e poi in positivo, quando trasforma quel che a tutti appare come un gesto di scherno nei confronti degli altri pittori in una boa in mezzo al mare. I riferimenti alle opere di William sono, come in questo caso, delle immagini pretestuose per ammiccare allo spettatore, e lo stesso accade, per esempio, quando Leigh mostra il quiz di papà Turner che propone ai visitatori dell'atelier di rintracciare la figura dell'elefante nel celebre Annibale valica le Alpi (Tate Britain, 1812). 
Alla Royal Academy, dov'è di casa, Turner si relaziona con Constable, Leslie e gli altri grandi pittori del momento, ma soprattutto fa la conoscenza del giovane John Ruskin, il critico che osannerà la sua opera come innovatrice e rivoluzionaria, ma che lui bacchetta quando critica come arcaico un maestro del vedutismo come Claude Lorrain.
È questo il Turner di Mike Leigh, un pittore non certo socievole, un uomo difficile e in perenne contrasto con tutti, con idee decise su tutto e, naturalmente, anche in fatto di pittura: "il colore è contraddittorio", "il bianco è la forza del bene, il nero il demonio", dice con rapide sentenze. Si percepiscono pienamente il suo ossessivo rapporto con la luce, nonché la progressiva rarefazione della sua pittura, che lo rende un antesignano dell'impressionismo e non solo, fino a rasentare il dissolversi del figurativo cosicché, negli ultimi anni di vita, la stessa accademia, che lo aveva esaltato, e persino la regina, giudicheranno la sua pittura l'arte di un pazzo e di un cieco. 
Tutto questo è, però, come per tutti i geni (e già questa di per sé è una profonda semplificazione figlia del Romanticismo, ma oggi siamo nel 2015!), la dimostrazione di essere più avanti rispetto alla società in cui si vive, tanto più in un momento storico che coincideva con la rivoluzionaria invenzione della fotografia, che rendeva di colpo inutile quel realismo che per secoli era stato cercato in pittura. Il regista riserva a questo basilare passaggio la prima impressione di William, che con curiosità si presenta nello studio di John Mayall (1813-1901), che ha portato a Londra una "camera" da Philadelphia, per posare per la sua prima fotografia. Alla domanda sul perché quelle immagini siano in bianco e nero, il dagherrotipista ammette che per lui sia un mistero e Turner risponde con un eloquente "e che tale rimanga a lungo". 
Timothy Spall e Autoritratto di Turner
(Tate Britain, 1798)
Leigh strizza l'occhio anche al lato leggendario della biografia di Turner, riproponendo l'episodio in cui si sarebbe fatto legare all'albero maestro di una nave per vedere meglio il mare in burrasca dall'interno e poter dipingere una tempesta di neve, nonché facendogli pronunciare la frase "dio è il sole" in punto di morte.
Il regista britannico, infine, con evidente e giustificato orgoglio, non rinuncia a mostrare la vicenda del celebre lascito Turner: il pittore che rifiuta le centomila sterline offerte dal ricco Joseph Gillot, per acquistare in blocco un gruppo di suoi dipinti, perché la sua intenzione è quella di lasciarli all'Inghilterra che li esporrà gratis. È questo il termine maggiormente ostentato in questa sequenza, con la consapevolezza che l'arte serva per formare le coscienze e la mano dei futuri artisti, un concetto su cui si fonda l'intera fruizione del patrimonio artistico britannico. Purtroppo per Turner, la Royal Academy non utilizzò mai il lascito monetario per gli artisti in difficoltà, come avrebbe voluto il pittore, e non costruì nessun museo apposito per la sua collezione. Nei decenni successivi i dipinti vennero prestati nelle istituzioni fuori Londra, dove rientrarono solo nel 1910 per essere ospitati nell'ala Duveen Turner della Tate Gallery e nel 1987 furono trasferiti nell'apposita ala Clore Gallery, dove sono tuttora...

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