giovedì 19 febbraio 2015

Finalmente domenica! (Truffaut 1983)

L'ultimo film diretto da Truffaut ha recentemente chiuso la rassegna dedicata al regista francese del Palazzo delle Esposizioni di Roma, una bella occasione per riapprezzare non solo molti suoi film sul grande schermo, spesso proiettati in lingua originale, ma anche diverse pellicole da lui amate (I film della mia vita, 11 dicembre 2014 - 8 febbraio 2015).
Finalmente domenica! è forse il più hitchcockiano e hollywoodiano tra i film del grande regista francese, che lo trasse dal romanzo di Charles Williams The long Saturday night, trasformandolo in un noir alla Howard Hawks, in cui, oltre alla bella sceneggiatura realizzata insieme alla solita Suzanne Schifmann, è il bellissimo bianco e nero di Nestor Almendros ad avere un ruolo decisivo. Per ottenerlo, Truffaut combatté strenuamente con il coproduttore Gérard Lebovici, al quale indirizzò una lettera in cui l'espressione bianco e nero veniva più volte sottolineata e in cui il regista elencava i diversi recenti capolavori che grazie anche a questa soluzione avevano avuto successo: da L'ultimo spettacolo (Bogdanovich 1971) a Toro scatenato (Scorsese 1980), da The Elephant Man (Lynch 1980) a Veronika Voss (Fassbinder 1982), fino a Lo stato delle cose (Wenders 1982), che aveva appena vinto il Leone d'oro a Venezia.
Il film è arricchito dalla presenza, come attori protagonisti, di due star indiscutibili e azzeccatissime: Jean Trintignant e Fanny Ardant. Il primo interpreta Julien Vercel, uomo di mezza età titolare di un'agenzia immobiliare, con la passione per la caccia; la seconda è la segretaria dell'agenzia, Barbara, una splendida donna dal carattere deciso, condito di un'ironia intelligente e sarcastica.
Tutto il film ruota attorno all'omicidio di Jacques Massoulier (Jean-Pierre Kalfon), ucciso da un colpo di fucile durante una battuta di caccia in cui era presente lo stesso Julien. L'omicidio fa da prologo alla storia, che si complica notevolmente quando scopriamo che Massoulier era stato anche l'amante della signora Vercel, l'annoiata Maria Christine (Caroline Sihol), una donna giovane, bella, ma fredda, ormai un peso per Julien, e che peraltro non perde occasione per litigare a telefono con Barbara ostentando il suo ruolo di "moglie del titolare".
Le ricerche della polizia, guidata dal commissario Santelli (altro cognome italiano... in La mia droga si chiama Julie il detective si chiama Comolli), si accentrano su Julien che non ha molti alibi e al quale, come se non bastasse, arrivano diverse telefonate di una donna che lo accusa di aver ucciso Massoulier per gelosia...

Il ruolo di Fanny Ardant è uno dei più bei ruoli mai scritti per un'attrice al cinema: una folgorazione per lo spettatore - e per l'uomo che in quel momento aveva la fortuna di amarla ricambiato, posizionato proprio dietro la mdp - sin dal primo fotogramma: Barbara cammina per strada con una leggiadria impareggiabile, coadiuvata dalla musica altrettanto leggera di Georges Delerue, e con un senso di indipendenza che Truffaut sottolinea con il veloce scambio di battute con un passante che non può evitare di seguirla ("insomma va di là?" - "sì, vado di qua" - "peccato" - "c'est la vie").
La sua ironia è tagliente. Separata dal marito fotografo, con cui però lavora in una compagnia teatrale dilettantistica e che è ancora molto dipendente da lei, gli dice che non ha avuto il suo affidamento! Così, a Julien che dopo aver sentito la moglie infuriata con Barbara decide di cercare una nuova segretaria, non solo indica di cercarsi una dipendente che stia bene alla moglie, ma senza mezzi termini gli dice "chieda una ragazza della pubblica assistenza, hanno visto di tutto e non si lamentano mai", e, molto più avanti, all'ennesimo scontro tra i due, ribadisce "quello che ho capito è che i padroni possono cambiare gli impiegati, ma gli impiegati non possono cambiare i padroni". È indubbiamente Barbara il personaggio principale del film: è lei a svolgere le indagini, per le quali va a Nizza e finge di essere una prostituta (ingelosendo inevitabilmente le "colleghe" di una sera), è lei a risolvere il caso, è lei che dichiara il suo amore a Julien, di fatto tutto ciò che accade nella storia fa capo al suo personaggio.

Alfred Hitchcock è costantemente dietro l'angolo, a partire dal soggetto stesso del film, incentrato sull'incertezza e l'ambiguità della colpevolezza; per l'ironia che caratterizza la sceneggiatura e in particolar modo per il personaggio di Barbara, mora e passionale, l'opposto della bionda e pericolosa Marie Christine, la moglie di Vercel che dal confronto ne esce poco hitchcockianamente sconfitta, pur se offre la conferma al topos del cineasta britannico secondo cui spetta alle bionde il calcolo e il complotto e alle more l'affidabilità e la sincerità. Non è un caso che anche la ragazza che risponde all'annuncio per il posto da segretaria sia bionda e che, pur sapendo battere a macchina con un solo dito si mostri sicura di sé, consapevole di avere delle armi convincenti e opposte a quelle di Barbara: a una segretaria, sembra dire, non si chiede di pensare più di tanto, "mi si dice quello che devo fare e lo faccio". E che Truffaut giochi sul contrasto tra i due modelli femminili è confermato più avanti, quando Barbara si lamenta, sbagliando, di non essere mai stata guardata da Julien proprio perché non è bionda, né ha unghie e ciglia finte, una non troppo sottile critica alla moglie del capo.
È dal punto di vista registico, però, che Truffaut cita più volte uno dei suoi massimi modelli cinematografici: per un paio di volte vediamo con gli occhi dei protagonisti quello che accade nell'appartamento del palazzo di fronte, evidentemente mutuato da La finestra sul cortile (1954); nel bel flashback che il regista ci mostra quando Julien va a prendere Barbara durante le prove a teatro, le inquadrature a scatti di pochissimi secondi l'una rimandano chiaramente al montaggio di Psycho (1960); Barbara che durante le sue ricerche entra nella stanza di un albergo, mentre lo spettatore (e solo lui, come da lezione sulla suspense di Hitchcock) sa che sta per arrivare l'uomo che ha affittato quella stanza, è l'ennesimo omaggio al grande Alfred; Barbara che per difendere Julien colpisce un uomo con una statuetta della torre Eiffel, infine, è la dimostrazione che l'allievo segue ancora il maestro, che nell'intervista da cui scaturì Il cinema secondo Hitchcock, precisa quanto ami contestualizzare, anche con dettagli ironici, sequenze come queste.
La cinefilia truffautiana, però, non si limita a Hitcocock, cosicché vedere il commissario di polizia che va a lavarsi le mani e si bagna tutto per un guasto al lavandino è una clamorosa citazione de L'arroseur arrosé, uno dei dieci brevi film proiettati dai fratelli Lumière nella famosa sera del 28 dicembre 1895 al Salon indien du Grand Café di Boulevard des Capucins di Parigi, con cui convenzionalmente si dà inizio alla storia del cinema. E così al cinema in cui si svolge una sequenza basilare per l'intreccio (proprio in una sala cinematografica!), Truffaut non manca di precisare che si sta proiettando lo strepitoso Orizzonti di gloria (Kubrick 1957), che l'incerta versione italiana traduce colpevolmente "sentieri di gloria"... Ed è ancora Barbara che per non far insospettire la polizia, in piena notte, spinge Julien davanti ad un portone e lo bacia con passione, dicendo subito dopo, davanti allo sguardo interrogativo del suo datore di lavoro, "l'ho visto fare al cinema", fino al flashback con cui alla fine narra il susseguirsi degli eventi che l'hanno portata alla soluzione dell'enigma è un tipico escamotage del cinema noir classico.
Truffaut, infine, arricchisce la storia anche di alcune autocitazioni. La passeggiata iniziale di Barbara è già da sola un evidente riferimento a L'uomo che amava le donne (1977), ma quando Julien guarda le gambe femminili dallo scantinato e Barbara lo provoca passandoci davanti apposta, non possiamo non pensare che "le gambe delle donne sono dei compassi che misurano il globo terrestre..." dello stesso film, in qualche modo ricordato anche dalla frase dell'avvocato Clement (Philippe Laudenbach), "le donne sono magiche".
Di fatto anche la clausura nel sottoscala a cui Julien è costretto quando diventa un ricercato dalla polizia fa pensare a Lucas Steiner interpretato da Heinz Bennent ne L'ultimo metrò (1980), chiuso nella cantina del teatro per scampare alle retate antigiudee dei nazisti. E, infine, in qualche modo aleggia anche Adèle H (1975), poiché la pièce teatrale a cui lavora inizialmente Barbara è tratta da un'opera di Victor Hugo...
Finalmente domenica!, però, è pur sempre un film d'amore e Julien che bacia Barbara e commenta "quando uno si sente completamente idiota vuol dire che è innamorato?", mostra una sorpresa non troppo lontana da quella di Julie (d'altronde il suo nome al femminile) di La mia droga si chiama Julie (1969).
Truffaut, nella lettera con cui convinse Trintignant a lavorare per questo film, scriveva "dovremo riuscire a rendere tutto brioso e affascinante", un risultato pienamente raggiunto, e metteva in conto un eventuale rifiuto dell'attore:
"io la capisco e, per tutti e due, si tratterà soltanto di rinviare la partita. Se invece lei sceglierà questa parte, come si fare per un paio di scarpe, non sentirà male ai piedi, perché adotteremo un passo morbido, adatto ai mocassini. Dopo aver letto la sceneggiatura, può telefonarmi a Rochegude [..] o venire a pranzo, credo sia tre curve dopo casa sua".
Trintignant, evidentemente, fece quelle tre curve, per nostra fortuna e per la fortuna di tutti gli amanti del cinema, poiché Truffaut morì per un maledetto tumore al cervello il 21 ottobre 1984, senza avere la possibilità di girare altri film...

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