Il nuovo film di Wes Anderson è un luna park visivo! Entrare in sala stavolta è ancor più sorprendente del solito e The French Dispatch splende come una summa delle pellicole precedenti del regista texano. Ogni inquadratura è un mondo in cui perdersi: si è costretti a scegliere cosa guardare con la consapevolezza che non sarà possibile vedere tutti i dettagli, se non presupponendo molte altre visioni (trailer).
Si parte da un topos dell'iconografia filmica, le rotative in movimento, solitamente protagoniste di montaggi che sintetizzano il tempo che passa con il susseguirsi di importanti notizie, che invece Anderson mostra in una delle sue proverbiali inquadrature a prospettiva centrale, per introdurre la cornice della storia. Nella sede del French Dispatch, inserto poco letto del Liberty, Kansas Evening Sun, il suo fondatore e direttore, Arthur Howitzer Jr. (Bill Murray), è appena morto e quello che va in stampa sarà l'ultimo numero.
La redazione della rivista, chiaro omaggio al settimanale New Yorker, che Anderson ama e colleziona, ha sede nell'immaginaria cittadina francese di Ennuì-sur-Blasé (letteralmente "noia sull'apatia"; si tratta in realtà della cittadina di Angoulême, in Nuova Aquitania, come dimostra questo video), all'ultimo piano di un palazzo perfettamente andersoniano, che ha un impatto visivo del tutto simile a quello di Grand Budapest Hotel.
La regia non trascura nessun particolare, come sempre, e anche una breve sequenza apparentemente insignificante, come la preparazione di un vassoio, può diventare un piccolo capolavoro a se stante, con ogni singolo gesto trattato come parte di una perfetta catena di montaggio. Quel vassoio viene poi trasportato da un cameriere che si muoverà in quell'edificio come in una casa di bambole, con una figura che non può non far pensare ad una delle scene iniziali di Mon oncle di Jacques Tati (vedi). Se poi cerchiamo il dettaglio, il cameriere ricorda molto l'Eric Idle così vestito nel mitico Il senso della vita dei Monty Pyhton (1983). E che forse Wes Anderson abbia intenzione di omaggiare i Python sembra chiaro anche più avanti, con un'aggressione di bambini nei confronti di inoffensive vecchiette (teppiste e pericolosissime, invece, in un celebre sketch del Flying Circus).
Lo stesso si dica per la presentazione dei membri della redazione, a partire dalla segretaria Alumna (Elisabeth Moss), inquadrati di spalle, per i piedi, limitati a metà figura e così via, fino a mostrarci una rutilante soggettiva del cronista Herbsaint Salzerac (Owen Wilson) che, in bicicletta, attraversa le strade di Ennui-sur-Blasé, raccontando la città e autorizzando la regia a veloci split-screen che mostrano dei divertenti "com'era-com'è" in b/n e a colori, un'alternanza che caratterizza l'intero film, che oscilla tra i contrasti del bianco e nero e le chiare tonalità pastello.
Sono passati pochissimi minuti e già abbiamo capito che sarà difficile stare dietro alla mdp per tutto il film, in cui la straordinaria idea dei tre articoli sceneggiati sarà il terreno in cui i nostri occhi vagheranno senza posa. Quei reportage, peraltro, pur se clamorosamente passati nel fantasioso tritatutto andersoniano, si ispirano ad articoli veramente usciti sul New Yorker e al cinema francese, dai Lumière a Renoir, da Tati a Becker e Duvivier, da Truffaut a Godard, come dichiarato dallo stesso regista.
Il capolavoro nel cemento, ispirato agli articoli del New Yorker sul mercante d'arte Joseph Duveen, è la storia, narrata in una serata di gala dalla critica J.K.L. Berensen (Tilda Swinton), a sua volta modellata sulla giornalista Rosamond Bernier, di un pittore galeotto all'interno di un carcere di massima sicurezza, Moses Rosenthaler (Benicio del Toro, il cui personaggio è liberamente ispirato al protagonista interpretato da Michel Simon di Boudu salvato dalle acque - Renoir 1932). A fare da modella all'artista è la sua carceriera, Simone (Léa Seydoux), mentre alle sue opere si interesserà sempre di più Julien Cadazio (Adrien Brody), il mercante d'arte che vuole monetizzare quel talento inaspettato, coadiuvato dai suoi facoltosi zii, Joe (Henry Winkler) e Nick (Bob Balaban). I dieci affreschi che Rosenthaler realizza sulle pareti del carcere sono stati dipinti da Sandro Kopp, il compagno di Tilda Swinton nella vita reale.
Revisioni a un manifesto è il servizio curato da Lucinda Krementz (Frances McDormand), che riporta una vicenda di rivolta studentesca surreale, avvenuta proprio a Ennuì, con protagonisti due studenti anarchichi, Zeffirelli (Timothée Chalamet) e Juliette (Lyna Khoudri), e la stessa giornalista. Personaggi e contesto fanno pensare ad un film di Jean Luc Godard, fino al parossismo di una battaglia tra studenti e sindaco combattuta a scacchi tra le barricate.
L'episodio è un'evidente dichiarazione d'amore per il cinema francese e la Nouvelle Vague è un chiaro modello (i baffi di Zeffirelli e gli "attributi" del casco da motociclista e lo specchietto portacipria di Juliette lo confermano), ma forse non manca anche un riferimento alla partita di scacchi tra Marcel Duchamp e Man Ray in Entr'acte di René Clair (1924), manifesto del cinema dadaista. La ribellione studentesca, finalizzata alla libertà sessuale, che qui sconfina in un improbabile e divertente triangolo tra i protagonisti, rimanda a quella guidata da Daniel Cohn-Bendit all'università francese di Nanterre nel maggio del 1968. Se, quindi, Chalamet è ispirato a lui, Lucinda Krementz è plasmata sulla figura di Mavis Gallant, scrittrice canadese che scrisse diversi articoli proprio per il New Yorker sul maggio sessantottino di Parigi.
L'episodio è un'evidente dichiarazione d'amore per il cinema francese e la Nouvelle Vague è un chiaro modello (i baffi di Zeffirelli e gli "attributi" del casco da motociclista e lo specchietto portacipria di Juliette lo confermano), ma forse non manca anche un riferimento alla partita di scacchi tra Marcel Duchamp e Man Ray in Entr'acte di René Clair (1924), manifesto del cinema dadaista. La ribellione studentesca, finalizzata alla libertà sessuale, che qui sconfina in un improbabile e divertente triangolo tra i protagonisti, rimanda a quella guidata da Daniel Cohn-Bendit all'università francese di Nanterre nel maggio del 1968. Se, quindi, Chalamet è ispirato a lui, Lucinda Krementz è plasmata sulla figura di Mavis Gallant, scrittrice canadese che scrisse diversi articoli proprio per il New Yorker sul maggio sessantottino di Parigi.
La sala da pranzo privata del commissario di polizia, infine, si rifa' anch'essa al cinema francese, ma in questo caso ai polizieschi transalpini degli anni '40'50. Si tratta di una storia di "cucina poliziesca" raccontata da Roebuck Wright (Jeffrey Wright) in un'intervista ad un presentatore televisivo (Liev Schreiber), in cui ricorda una cena interrotta da un rapimento e le successive indagini, che coinvolgono un cuoco-poliziotto orientale, Nescaffier (Stephen Park), un commissario (Mathieu Amalric) e tanti altri personaggi, che a volte compaiono per pochi secondi, interpretati da attori del calibro di Willem Defoe, Edward Norton, Christoph Waltz, Saoirse Ronan e Cecile de France.
Davvero impossibile descrivere tutte le inquadrature che viene voglia di posterizzare e incorniciare, ma tra queste ce ne sono sicuramente un paio che coinvolgono l'edificio della redazione del French Dispatch, in una delle quali compare anche il vicinato, dando la sensazione di essere in un dipinto di Edward Hopper; oppure quella in cui Moses e il suo avvocato sono davanti al giudice per ottenere un addolcimento della pena, il tutto all'interno di un tribunale con volte a crociera inquadrate dal basso, mentre di lato, proprio come dei donatori in un dipinto antico, si vedono Cadazio e i suoi zii.
Non si dimentichino pareti che scorrono modificando la scena come a teatro; finti fermoimmagine in cui in realtà sono gli attori ad aver arrestato il movimento in una data posizione; un ordinato disordine davanti a cui si rimane affascinati.
E poi i tanti oggetti geniali, divertenti, citazionisti, dalla meravigliosa "casa fermaporta" dall'inconfondibile forma di cuneo, all'aereo che tanto somiglia al sommergibile de Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004).
La sceneggiatura di Anderson non perde un colpo, con alcuni picchi, tra cui spicca la rassegnazione di Cadazio di fronte a Moses: "il suo bisogno di fallire è più forte del nostro desiderio di fargli avere successo".
La finzione è tutto. Come Quentin Tarantino in C'era una volta a Hollywood ha fatto creare reali locandine di fantomatici pellicole girate dal suo protagonista, qui Wes Anderson ci mostra una serie di copertine, disegnate da Javi Aznarez, del French Dispatch che le parole del film ci dicono essere stato attivo tra il 1925 (stesso anno in cui è stato fondato il New Yorker) ed il 1975. E per riprendere un altro contesto tarantiniano, il terzo episodio ha una parte narrata con l'ausilio del disegno animato, un'alternanza che fa istintivamente pensare al terzo capitolo di Kill Bill volume 1, che così raccontava Le origini di O-Ren. Va, però, anche ricordato che Anderson ha girato, seppur in stop motion, un intero film d'animazione, il bellissimo L'isola dei cani (2018).
Al genio di Wes Anderson contribuiscono anche i collaboratori, già più volte con lui, come il direttore della fotografia Robert Yeoman, lo scenografo Adam Stockhausen, il montatore Andrew Weisblum e il musicista Alexandre Desplat, autore di una colonna sonora leggerissima, in cui c'è spazio per brani inediti, pezzi swing e persino uno di Ennio Morricone (L'ultima volta), composto per I malamondo (Cavara 1964), e qui utilizzato per l'episodio stile Nouvelle Vague, nel quale compare anche Tu m'as trop menti, non a caso parte della colonna sonora de Il maschio e la femmina di Godard (1966).
Colonna sonora e animazione, peraltro, si uniscono nel bellissimo video posto in apertura del film, girato dallo stesso regista. Ancora una volta il brano è francese: si tratta di Aline (1966), canzone di successo che ai tempi venne anche cantata in italiano da Christoph. Qui la ascoltiamo sui titoli di testa, mentre i disegni di Aznarez scorrono presentando tutti i personaggi e Jarvis Cocker canta nei panni di Tip Top, che si muove e danza tra le scenografie della pellicola in versione fumettistica, senza dimenticare che Angoulême, dal 1974, è una delle patrie del fumetto, con il suo festival internazionale annuale (vedi).
Colonna sonora e animazione, peraltro, si uniscono nel bellissimo video posto in apertura del film, girato dallo stesso regista. Ancora una volta il brano è francese: si tratta di Aline (1966), canzone di successo che ai tempi venne anche cantata in italiano da Christoph. Qui la ascoltiamo sui titoli di testa, mentre i disegni di Aznarez scorrono presentando tutti i personaggi e Jarvis Cocker canta nei panni di Tip Top, che si muove e danza tra le scenografie della pellicola in versione fumettistica, senza dimenticare che Angoulême, dal 1974, è una delle patrie del fumetto, con il suo festival internazionale annuale (vedi).
La pellicola è certamente un omaggio al giornalismo, ma anche alla Francia, paese in cui il cineasta di Houston vive ormai da diversi anni.
Una delle battute del film ricorda "che sono i profumi quelli che alla fine non dimentichi", ma le immagini perfette, ricche di particolari, talvolta aggrovigliate, spesso malinconiche di Wes Anderson sono altrettanto indimenticabili!
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