lunedì 29 novembre 2021

È stata la mano di Dio (Sorrentino 2021)

È un Paolo Sorrentino differente quello di È stata la mano di Dio, e non potrebbe essere altrimenti. 
Il regista, per sua stessa ammissione, lascia gli "orpelli", rinuncia a gran parte del suo cinema raffinato ed estetizzante, e, complice la materia trattata, affida tutto al racconto, alla sceneggiatura, alla recitazione: la mdp fa un passo indietro e la si nota raramente. In tal senso, È stata la mano di Dio è, a vent'anni di distanza, la pellicola più vicina a L'uomo in più (2001), esordio folgorante del suo regista (trailer).

"Nella vita non esiste il pareggio" diceva allora lo slogan (oggi forse si direbbe tag-line) del film, una frase che ora sembra perfetta anche per l'ultima pellicola del cineasta napoletano, un'autobiografia che del pareggio non sa che farsene, d'altronde come indica la frase di Maradona posta ad esergo della pellicola, "Ho fatto quello che ho potuto, non credo di essere andato così male". E in effetti no, non andò male Diego e non va male nemmeno Paolo, che ha girato un altro capolavoro, intimo, romantico e malinconico, pescando tra i suoi ricordi, in una parabola visiva che va dal drone che si aggira sul golfo della città e nel silenzio del mare, fino alle note di una struggente Napule è di Pino Daniele, che arriva quando ormai lo spettatore è totalmente soggiogato e commosso.
Il regista racconta la sua adolescenza, tra affetti, prime volte, zuppe di latte e Maradona, sempiterno punto di riferimento attorno al quale si innestano i ricordi. Una storia di formazione che si interrompe bruscamente con la tragica scomparsa dei genitori ("fare questo film è stato terapeutico") e si ferma proprio nel momento in cui Fabio Schisa (si legga Paolo Sorrentino, interpretato da Filippo Scotti molto Timothée Chalamet), con le immancabili cuffie del walkman al collo che gli fanno da attributo, è sul treno, in viaggio per Roma, con la speranza di iniziare la sua carriera cinematografica. Impossibile non pensare che anche Federico Fellini aveva narrato la propria infanzia e adolescenza ne I vitelloni (1953), che terminava proprio con l'alter ego del regista, Moraldo, che prendeva il treno per lasciare Rimini. Fellini, in seguito, aveva messo in immagine anche il suo arrivo nella capitale con la parte iniziale di Roma (1972), ma nonostante il maestro riminese sia un modello imprescindibile, è difficile che Sorrentino, in una prossima pellicola, possa riprendere la storia da dove l'ha interrotta oggi.
Eppure Fellini è davvero ovunque in È stata la mano di Dio, a partire dai folkloristici pranzi in famiglia, con personaggi grotteschi, come il losco e sedicente san Gennaro che apre il film (Enzo Decaro), l'anziana signora impellicciata in pieno agosto, che mangia un'enorme mozzarella grondante latte (il fiordilatte di Agerola, la Zizzona di Battipaglia? C'è l'imbarazzo della scelta), o Aldo, il rabberciato fidanzato della corpulenta Luisella, che per parlare usa il laringofono. Pienamente felliniana è anche l'anziana baronessa Focale (Betti Pedrazzi) che abita nel palazzo degli Schisa, rigida, altezzosa, sempre critica verso tutti, ma che avrà un ruolo sorprendente nel dare a Fabietto "una mano a guardare il futuro", ricordandogli quanto "non si sa mai veramente cosa succede nelle case degli altri". Ci sono, poi, le forme prorompenti di Patrizia (Luisa Ranieri), la zia di Fabio, che prima appare con un vestito estivo bianco che lascia poco all'immaginazione e più avanti mentre prende il sole completamente nuda su una barca: è il sogno erotico di tutti, ma soprattutto del protagonista e del fratello maggiore, Marchino (Marlon Joubert), una Gradisca felliniana in piena regola. 
E di Fellini c'è anche il lato magico-spirituale, condensato nella figura del munaciello, il bambino della tradizione napoletana vestito col saio a cui, sin dal XV secolo, si attribuiscono alternativamente poteri benevoli e malevoli, e che nella narrazione del film appare a Patrizia, picchiata da Franco (Massimiliano Gallo), marito geloso incapace di meritare la bellezza della moglie, e Fabietto, quando più di ogni altro avrà bisogno di speranza. Il sacro, però, come in Fellini, può anche essere decontestualizzato e diventare grottesca quotidianità: si pensi, ad esempio, alla statua di Cristo in volo ne Le tentazioni del dottor Antonio, che nel film di Sorrentino ha il suo equivalente in una statuetta di padre Pio immersa in una tinozza del bagno.
Infine, i riferimenti più diretti a Fellini: Marchino sogna di fare l'attore e partecipa senza successo ai provini che il regista di Amarcord fa a Napoli, per E la nave va (1983), espediente che permette a Sorrentino di far respirare un po' di atmosfera felliniana e di sentire la voce di Fellini a Fabietto, che accompagna il fratello; e quindi la frase portante di È stata la mano di Dio, quel "la realtà è scadente", che rende necessario un cinema pieno di fantasia, che unisce Fellini a Sorrentino, che fatalmente attira oggi le stesse critiche ricevute dal grande Federico.
C'è tanta armonia in casa (Sorrentino gira nell'appartamento al piano superiore di quello in cui è cresciuto), Saverio (Toni Servillo) e Maria (Teresa Saponangelo) - che hanno anche un'altra figlia, Daniela (Rossella Di Lucca), un'adolescente che passa le ore al bagno e che, nella finzione scenica, Sorrentino nasconde lì per quasi tutto il film -, nonostante i problemi, i litigi, i tradimenti e gli allontanamenti, riescono a tenere in piedi la famiglia, tra fischi identitari e amorevoli, tanta ironia e perseveranza. Già, proprio la perseveranza, quella dote che Marchino non ha e che, a suo dire, Fabietto dovrà avere per forza...
Gli Schisa, inoltre, sono una famiglia di sinistra anche se vivono in una zona bene e altoborghese di Napoli, come ribadisce Saverio, che definisce Renato Guttuso “uno di noi” e dice alla moglie "siamo comunisti, siamo onesti interiormente".
La città è protagonista e sono tanti i luoghi in cui vediamo muoversi i personaggi dopo la silenziosa panoramica iniziale: si va da piazza Plebiscito, riportata agli anni in cui le automobili vi imperversavano sia in transito che parcheggiate, alla Galleria Umberto I, da piazzetta Matilde Serao a Galleria Toledo (dove Fabietto va a seguire le performance di Yulia, per cui ha un debole ma nessuna speranza), dal lungomare Caracciolo a Posillipo e al Vomero (dove abita zia Patrizia, nell'appartamento sopra quello della vera zia di Paolo Sorrentino, in via San Domenico), da Chiaia al cimitero di Poggioreale, dall'Istituto San Giovanni Bosco (la scuola dove va Fabietto, che frequentava anche Paolo Sorrentino) al Banco di Napoli di via Toledo (in cui lavora Saverio e in cui lavorava il padre del regista), fino al necessario stadio San Paolo. Uscendo da Napoli, Vico Equense (la villa del pranzo di famiglia è villa Giusso Astapiana, ai Camaldoli), Agerola, Massa Lubrense, Isca, Crapolla, Punta Campanella, Cetara fino a scendere a Stromboli, col vulcano fumante (omaggio a Rossellini?) e alla casa di Roccaraso. 
E, infine, una deserta Capri, dove Fabietto, col suo amico Armando (un Lucignolo in versione partenopea, e quindi pieno di generosità), incontrano nientepopodimeno che Adnan Khashoggi, allora l'uomo più ricco del mondo, e fanno il bagno nella suggestiva Grotta dello Smeraldo di Conca dei Marini.
Nonostante il dramma narrato, sono tanti i momenti in cui Sorrentino predilige i toni della commedia.
Nel ricco e colorato pranzo nella villa di famiglia, per esempio, una delle donne a tavola dichiara di seguire la dieta "witch watch", evidente versione maccheronica della Weight Watchers, che negli anni '80 aveva spopolato in Italia. Ed è sempre lì che Saverio, nei cui panni Toni Servillo è perfettamente a suo agio, scherza con tutti, ironizzando prima con uno dei nipoti messo di vedetta per l'arrivo degli zii, e alla risposta di questo "persevera il deserto dei tartari", guarda Fabietto che studia al liceo classico, dicendo "pure Antonio sta a 'o liceo classico?"; e con Luisella, il cui vezzeggiativo è già una parodia, data l'obesità della donna, e il suo fidanzato Aldo con cui ha uno scambio diretto e frontale da non perdere.
Anche Maria è una donna divertente e fa continui scherzi al marito e non solo. Uno di questi è riservato a una vicina con velleità attoriali, alla quale, al telefono, strumento principe degli scherzi anni '80-'90, fa credere di avere avuto la parte della Callas nell'ultimo film di Franco Zeffirelli, salvo poi dover confessare tutto su spinta della famiglia, in un'altra sequenza da commedia, con la cucina dei vicini che si trasforma in un piccolo e improvvisato tribunale, in cui l'improbabile contrizione degli Schisa fa il paio con le risate in sala.
La mano di Dio del titolo è ovviamente quella di Maradona, figura basilare dell'educazione sentimentale di Paolo Sorrentino, che ringraziò il calciatore argentino persino quando ricevette la statuetta per il miglior film straniero per La grande bellezza agli Oscar 2014. E non è certo un caso che la sua ultima fatica sia stata proiettata nei cinema italiani a un anno esatto dalla scomparsa de El Diez.
Maradona è un mito ancor prima di arrivare a Napoli e la felicità sembra ruotare intorno a lui, tra l'incredulità dei più scettici, tra i quali c'è anche Saverio Schisa che, forse, anche per non rimanere deluso e non vedere delusi i figli, continua a negare ogni possibilità di approdo del Pibe a Napoli; e gli entusiasti imperterriti, come zio Alfredo (Renato Carpentieri), pronto al suicido se non dovesse più arrivare ("io se Maradona non viene a Napoli, mi uccido!").
L'attesa di Diego è così totalizzante che, alla domanda di Marchino "meglio Maradona a Napoli o una chiavata con zia Patrizia", Fabietto sceglie la prima senza pensarci due volte. E quella mano sulla testa di Fabio-Paolo Sorrentino Maradona sembra metterla davvero, poiché è proprio per seguire le gesta del suo eroe in un Empoli-Napoli - che non vedrà mai -, che Fabietto salta il finesettimana con i genitori nella casa in montagna a Roccaraso, evitando di rimanere coinvolto nell'incidente domestico in cui i suoi perdono la vita. Al funerale dei genitori è ancora una volta zio Alfredo a interpretare tutto in maniera mistica, rivelando il vero motivo del titolo del film: "è stata la mano di Dio!".
Il gol della mano de dios
Sorrentino, qua è là, infarcisce la storia con momenti epici della carriera di Maradona a Napoli: al compleanno di Fabietto, peraltro, Saverio gli regala l'agognato abbonamento; e poi si cita il meraviglioso gol su calcio d'angolo di Napoli-Lazio del 24 febbraio 1985, ma soprattutto viene raccontata l'estate dei mondiali dell'86 e di quell'Argentina-Inghilterra del 22 giugno, che ormai è storia e letteratura insieme, in cui Maradona citò sarcasticamente la mano di Dio per spiegare il gol di pugno dell'1-0 con cui superò Peter Shilton e che zio Alfredo commenta con un definitivo "li ha umilitati", chiaro riferimento alla vendetta sul campo per la guerra delle Falkland-Malvinas.
La partita è sullo sfondo di una complessa vicenda familiare, cosicché è fatale che quel gol venga seguito attentamente da tutti, mentre quello meraviglioso del raddoppio, il gol del secolo (quello del "barrilete cosmico" di Victor Hugo Morales), non lo vedrà nessuno. Proprio in quel momento, la mdp, per quei secondi di poesia calcistica, abbandona la scena e inquadra la tv lasciata accesa, dando a noi la possibilità di essere gli unici spettatori di quel capolavoro.
La vita di Fabio, dopo la morte di Saverio e Maria, cambierà per sempre e si farà molto più silenziosa e introspettiva: la cavalcata del Napoli verso il suo primo scudetto non sarà più il suo pensiero prioritario e, significativamente, spegnerà il televisore proprio mentre questo annuncerà l'esaltante vittoria degli azzurri e, allo stesso modo, si ritroverà impassibile in strada, mentre tutti impazziscono di gioia intorno a lui. E così, anche la videocassetta di C'era una volta in America, che Fabietto aveva affittato per vedere con i suoi, rimarrà in casa dentro la custodia. Una sequela di atti mancati.
Il cinema diventerà il vero obiettivo di Fabietto, che, se aveva trovato in zia Patrizia il lato erotico e in Maradona quello romantico, per il suo futuro professionale avrà un fondamentale modello in Antonio Capuano (Ciro Capano), il regista e scenografo napoletano che lo affascina con la magia del cinema girando in Galleria Umberto I; che ha il coraggio di gridare a teatro contro l'inutile sofferenza ostentata dell'attrice impegnata di turno; che gli urla "a tien' 'na cosa 'a raccunta'?", trattandolo senza paternalismi, dandogli la spinta giusta in un momento che sa di bivio esistenziale, ricordandogli che "nessuno supera il suo fallimento" e, quindi, tanto vale mettersi in gioco. E, infine, è lui a dargli il consiglio mantra del "non disunirti", espressione da gergo sportivo, da squadra, che qui apre invece a varie interpretazioni (resta te stesso, non perdere il contato con le tue origini, tieni saldo in mente il tuo obiettivo, ecc.).
"Il cinema non serve a niente, però ti distrae dalla realtà, la realtà è scadente", dice Marchino a Fabietto, citando una famosa intervista di Federico Fellini. Il cinema diventerà la vita di Fabietto-Paolo Sorrentino, e lo stile onirico, spesso sopra le righe, del regista napoletano sembra davvero sostituirsi ad una realtà banale e poco interessante, così come la passione per Maradona, colui che trasformò la realtà di Napoli e dei napoletani in qualcosa di esaltante, "una rivoluzione", per dirla ancora una volta coi toni entusiasti di zio Alfredo.
Sorrentino si barcamena, splendidamente, tra quella rivoluzione e il "tuff" soffocato degli off shore che planano sulle onde... e sì, 'a tien' 'na cosa 'a raccunta', e speriamo ce ne racconti molte altre, perché saremo lì ad ascoltarle, a vederle, a emozionarci, a ridere e piangere con lui!

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