lunedì 8 novembre 2021

A White White Day - Segreti nella nebbia (Pálmason 2019)

“Quando tutto è bianco e non puoi più vedere la differenza tra la terra e il cielo, i morti possono parlare con noi che siamo ancora vivi”.
Con questa frase di autore anonimo ad esergo inizia la bella pellicola del cineasta islandese Hlynur Pálmason, uscita in Italia con due anni di ritardo e che, nel 2019, aveva trionfato come miglior film al Torino Film Festival, mentre a Cannes il suo protagonista, Ingvar Eggert Sigurðsson, aveva vinto il Rising Star Award de La Semaine de la Critique come miglior attore.
A white white day, a cui l'edizione italiana ha aggiunto un superfluo sottotitolo didascalico (Segreti nella nebbia), racconta una storia di perdita, di sofferenza, di elaborazione del lutto, di silenzi e di una vasta gamma di sentimenti, con la sobrietà e l'essenzialità dell'estetica nordeuropea, priva di fronzoli e anche per questo capace di colpire dritta allo stomaco (trailer).

Ingimundur è un uomo, un padre, un nonno, un poliziotto, un vedovo, così riassume se stesso al proprio terapeuta. Sono i ruoli sociali che lo identificano, ma oggi, di fatto, è soprattutto padre di due figlie e nonno di una nipote, Salka (Ída Mekkín Hlynsdóttir), con cui passa gran parte del suo tempo. L'uomo, infatti, ha perso la moglie in un incidente stradale, episodio che vediamo all'inizio del film, ma senza commenti, senza funerale, senza ulteriori spiegazioni se non l'immagine dell'auto che va fuori strada oltrepassando il guard rail: non ci viene fornito alcun altro elemento, se non la mancanza della donna per Ingimundur, le figlie, la nipote e, qua e là nel corso della storia, qualche fotogramma che mostra una scarpa, il parabrezza distrutto, silenziose allusioni al tragico impatto dell'auto.
Tra gli oggetti appartenuti alla defunta, suo marito troverà abiti da annusare e da indossare, ma anche dei filmati che gli faranno scoprire una lunga relazione extraconiugale avuta dalla moglie con un uomo che Ingimundur conosce bene e l'amore, improvvisamente, che non muore, si affiancherà anche all'odio e al risentimento, trovando forse una valvola di sfogo al dolore provato quotidianamente...
Pálmason gira con rigore, usa molto la prospettiva centrale e gioca con i tempi dell'azione. Ci mostra Ingimundur spendere molte energie per ristrutturare un ex capannone industriale in modo da trasformarlo in una casa per sua figlia e sua nipote.
Il regista ci dà l'idea delle stagioni che passano attraverso un lungo time-lapse a camera fissa, che vede alternare in scena la neve, la pioggia, il sole, il vento. Quello che sembra un luogo decisamente inospitale, attorno al quale pascolano solo alcuni cavalli islandesi con il loro folto e lungo pelo, col tempo diventa una casa accogliente: i capannoni vengono pian piano dotati di finestre e lì il regista riprende ancora tutto a distanza, mostrando singole stanze illuminate, che danno la sensazione di essere di fronte a una "casa di bambola", dando un'importante chiave di lettura all'intera pellicola. La presenza umana è davvero un'inezia, forse più che altrove, davanti ad un paesaggio del genere, e l'opera di Ibsen, con la sua critica all'ipocrisia della società borghese contemporanea, aleggia intorno al film per tutta la sua durata.
Diversi gli elementi disturbanti, a partire dalla musica dissonante dei violini, per proseguire con la piccola Salka che, sorridendo, finisce un salmone pescato ancora vivo, sbattendolo con violenza contro un tavolo. Ed è la stessa bambina ad ascoltare l'assurda storia horror che il nonno le racconta per farle prendere sonno, dopo averle chiesto "ne vuoi una bella o una spaventosa?", parlandogli del padre che dissotterrò un cadavere per avere un fegato da portare a tavola.
Il regista, inoltre, dà spazio anche ad un inserto in cui inquadra i singoli personaggi a figura intera e fuori dal contesto della narrazione, in una sorta di saluto teatrale, che però avviene ben prima della fine del film.  
Tutto è simbolo, da quel bianco accecante dei giorni di nebbia islandese, che non permette di vedere al di là di un palmo, ad un masso, che, trovato lungo la carreggiata, viene fatto rotolare da Ingimundur lungo una scarpata: Pálmason lo segue con la mdp, lo vediamo rotolare per centinaia di metri, superare due balze rocciose e, poi, finire in acqua, in quello che è probabilmente il momento più rasserenante del film, anche se a poter trovare la pace sembra essere solo un essere inanimato come quello.
La pellicola, che ha in fondo una trama noir, è soprattutto una storia interiore, di analisi profonda dell'essere umano e delle sua relazioni sociali, oscillanti tra amore, necessità, incertezze, sensi di colpa, tormenti e tanto altro.
Tra i dialoghi di una buona quanto essenziale sceneggiatura, ne segnalo almeno due: quello minimale tra Ingimundur e una delle figlie, in uno dei pochissimi casi in cui si parla della moglie e madre scomparsa e di quanto sia dura prendere il coraggio di riempire degli scatoloni con gli oggetti di chi non c'è più e, soprattutto, quello tra il protagonista e suo genero, durante il quale viene affrontato il difficile tema dell'infedeltà coniugale, ma, ancora una volta come non ci aspetteremmo, andando dritto al punto sin dalla prima domanda, "hai mai tradito mia figlia?".
Da lì i due scopriranno di avere atteggiamenti totalmente differenti rispetto al tema in questione, ma, nonostante il legame familiare che li unisce, non c'è giudizio, tutto viene detto in piena libertà e in piena sincerità, semplicemente accettando le posizioni opposte dell'altro.
Tra sedute con lo psicologo, accessi d'ira, partite di calcio, docce che fanno riflettere, iniziative dettate da una gelosia ormai fuori tempo massimo, Ingimundur dovrà affrontare, simbolo dei simboli del film, una lunga galleria il cui accesso è interrotto da una frana, cercando quell'antonomastica luce in fondo al tunnel, senza staccarsi dagli affetti più cari, in un percorso, fatto anche di ricordi (con Memories di Leonard Cohen in sottofondo), in cui ogni spettatore, questo è certo, non può fare a meno di identificarsi.

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