Difficile iniziare l'analisi di questo film senza considerare che quest'anno ha vinto la Palma d'oro al festival di Cannes, e che in lizza, ad esempio, c'era un film come Drive my car di Hamaguchi, anch'esso in qualche modo legato al feticismo per la macchina, ma in maniera diametralmente opposta.
Titane è il secondo lungometraggio della regista francese Julia Ducournau, dopo l'horror Raw - Una cruda verità (2016), che vinse il FIPRESCI a Cannes cinque anni fa. Questa volta al genere, che rimane nel medesimo ambito del body horror, si aggiunge una componente fantasy-meccanica che rimanda immediatamente a film del passato come Christine - La macchina infernale (Carpenter 1983), Tetsuo (Tsukamoto 1989) e Crash (Cronenberg 1996), e la novità è solo la declinazione di questi elementi in accezione gender, indubbiamente un tema importante, necessario, ma che non rende automaticamente la pellicola un capolavoro (trailer).
Come in altre storie di fantascienza, il protagonista viene reso differente dagli uomini comuni in virtù di un evento scatenante avvenuto durante l'infanzia: in questo caso una bambina rimane coinvolta in un grave incidente d'auto che la costringe ad un difficile intervento alla testa, in cui le viene inserita una placca di metallo, il titanio del titolo (non a caso reso con una serie di radiografie craniche). Un lungo salto temporale da quella premessa ci mostra Alexia (Agathe Rousselle), ormai giovane donna e ballerina sexy dei motor show, capace di fare sesso con un'automobile, rimanendo incinta. La Doucournau non ci risparmia i dettagli, sia dell'amplesso, durante il quale l'automobile si dimena rimbalzando sugli pneumatici e lampeggia convulsamente con i fari, mentre la ragazza, legata sui sedili posteriori asseconda i movimenti della macchina come su un tagadà anni '80.
Alexia diventerà un vero e proprio serial killer tarantiniano, uccidendo chiunque le si accosterà, e con qualunque mezzo: dalle bacchette che usa per fermare i capelli ad uno sgabello che trova in salotto, in una sequenza accompagnata dall'ironia ("ma quanti siete?") e da una colonna sonora che fa da contrappunto, come Nessuno mi può giudicare di Caterina Caselli, che sembra davvero uscita dalla penna e dall'occhio del regista di Pulp Fiction.
L'unico uomo che riuscirà ad avvicinarsi ad Alexia sarà Vincent (Vincent Lindon), il comandante di un gruppo di giovani vigili del fuoco, che la crede Adrien, il suo adorato figlio scomparso. In quella caserma, Alexia passerà il tempo della sua complicata gestazione, nascondendo la pancia e il proprio sesso a tutti finché sarà possibile, ingannando, ma allo stesso tempo affezionandosi a Vincent, non del tutto ignaro di vivere in una piacevole bugia...
Tutto è disturbante: le atmosfere, i silenzi, i comportamenti di Alexia; le sue perdite, molto più simili a quelle di un motore in difficoltà che di una donna incinta; la sua trasformazione per evitare di somigliare all'identikit che potrebbe facilmente permetterne l'identificazione. Tutto avviene in silenzio e nello squallore del bagno di un autogrill.
Parte della sceneggiatura si sofferma sul rapporto quantomeno spigoloso tra Alexia e alcuni pompieri, che la considerano il figlio effeminato del loro comandante, ma ne avvertono anche la carica sensuale. Vincent, però, colta l'elettricità che c'è in caserma, ricorda a tutti che lui lì dentro è Dio e che, quindi, suo figlio è Gesù e come tale va rispettato, generando l'inevitabile commento di uno dei ragazzi: "allora Gesù è bianco e gay".
Alla luce di questo scambio di battute, risulta ancora più significativo il citazionismo irriverente che mostra, di fatto, una Pietà in cui il rapporto genitore-figlio viene ribaltato, con Alexia-Adrien che appare seduta a terra con in braccio il corpo privo di sensi di Vincent.
Tra gli altri riferimenti, è possibile notare che il tatuaggio di Alexia, Love is a Dog from Hell, richiama il titolo dell'omonima raccolta di poesie di Charles Bukowski 1974-77; mentre il poster appeso nella camera di Adrien, con un robot che stringe tra le mani una o più figure umane, è indubbiamente opera del famoso illustratore statunitense di fantascienza Frank Kelly Freas. Solo una seconda visione, però, potrà togliermi il dubbio se si tratti della versione originale, che il disegnatore realizzò per la copertina della rivista Analog dell'ottobre 1953 o della copertina del disco dei Queen News of the World (1977), con i componenti del gruppo inglese al posto del singolo uomo, che da quel prototipo prendeva le mosse su proposta del batterista Roger Taylor, che possedeva un numero di quella rivista.
Tutto è disturbante: le atmosfere, i silenzi, i comportamenti di Alexia; le sue perdite, molto più simili a quelle di un motore in difficoltà che di una donna incinta; la sua trasformazione per evitare di somigliare all'identikit che potrebbe facilmente permetterne l'identificazione. Tutto avviene in silenzio e nello squallore del bagno di un autogrill.
Parte della sceneggiatura si sofferma sul rapporto quantomeno spigoloso tra Alexia e alcuni pompieri, che la considerano il figlio effeminato del loro comandante, ma ne avvertono anche la carica sensuale. Vincent, però, colta l'elettricità che c'è in caserma, ricorda a tutti che lui lì dentro è Dio e che, quindi, suo figlio è Gesù e come tale va rispettato, generando l'inevitabile commento di uno dei ragazzi: "allora Gesù è bianco e gay".
Alla luce di questo scambio di battute, risulta ancora più significativo il citazionismo irriverente che mostra, di fatto, una Pietà in cui il rapporto genitore-figlio viene ribaltato, con Alexia-Adrien che appare seduta a terra con in braccio il corpo privo di sensi di Vincent.
Le due immagini di Frank Kelly Freas (1953 e 1977) |
Proprio la musica è una componente essenziale della pellicola e, oltre al brano già citato di Caterina Caselli, nella colonna sonora di Jim Williams, vanno citati almeno Doing It To Death dei Kills, sulle cui note danza sensualmente Alexia al motor show; She's not There di Rod Argent e Future Island dei Light House, che segnano momenti di rilassata incoscienza di Vincent e di ballo coinvolgente; ma ovviamente anche la Passione di Matteo di Bach, che fa da sottofondo alla parte più sacra e toccante del film.
Dalla sala si esce scossi, di certo per alcune sequenze, per la carica dirompente e per la trasgressività della pellicola, e non è certo un male, anche se si avverte una certa dose di pretenziosità ingiustificata. Poi ci si ricorda che si tratta dell'opera che ha vinto il festival di Cannes, e questo convince ancora meno...
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