mercoledì 5 agosto 2015

Roma (Fellini 1972)

Tutto l'amore e la dissacrazione di Federico Fellini nei confronti della sua città adottiva in un solo film, in cui si fondono indissolubilmente l'anima popolare e gli aspetti poetici fonte d'ispirazione del grande regista riminese, che li rimescola insieme con la sua fantasia deformante, eppure in grado di cogliere l'essenza intima di Roma come pochi altri.
Una pellicola-mosaico, fatta di luoghi, persone, voci e suoni, senza soluzione di continuità, in una narrazione che è sì autobiografica, come sempre in Fellini, ma è anche frutto dello sguardo lucido di chi ha una capacità di osservazione fuori dal comune.

Fellini racconta i suoi primi contatti con Roma, quelli ai tempi della scuola quando, durante il Ventennio, in una Rimini provincialissima, il maestro e il parroco facevano continui riferimenti alla storia antica: dalle lezioni con voce stentorea tipica di una certa emulazione ducesca di quegli anni, alle passeggiate ai limiti del fanatismo lungo il vicino Rubicone, fino alla visione delle diapositive con i principali monumenti della capitale, pur se le "bellezze" della città per il regista sono un concetto ampio...
E così anche le altre realtà di Roma percepite a distanza: i pranzi domenicali interrotti dall'angelus alla radio, tra gli improperi del padre che rifiuta la totale devozione femminile, e poi, naturalmente, il cinema dove, tra i manifesti di Greta Garbo e de I grandi magazzini (Camerini 1939), Roma era la Roma dei peplum e del cinema muto, ma anche quella della propaganda del cinema fascista dell'Istituto Luce (divertenti in entrambi i casi i finti spezzoni mostrati da Fellini).
Tutto questo fino all'arrivo a Roma, quando appena diciottenne (il suo giovane alter ego è interpretato da Peter Gonzales), nell'ottobre del 1938, giunse a via Albalonga, in zona Appio-San Giovanni, e iniziò la sua carriera di giornalista poi abbandonata per il cinema.
È qui che l'osservazione felliniana inizia a dare il meglio di sé, a cominciare dalla ricerca di una camera in città: le due sequenze che narrano la vita nella casa e la prima cena in un ristorante romano sono dei capolavori assoluti. Nella prima c'è tutto quello che poteva capitare di vedere ai tempi in una grande casa dai tanti inquilini: la giovane domestica di paese che rivela le vicende personali della padrona obesa, allettata e che esige un comportamento irreprensibile dal nuovo arrivato, nonché madre del "signorino", un uomo tratteggiato con pochi elementi che delineano perfettamente la tipologia del bambino mai cresciuto, fino alla comparsa di Cinecittà che si dà un tono per aver lavorato con Camerini e al signore calvo che imita Benito Mussolini (e che al popolo di santi, poeti, ecc. aggiunge il "popolo di pelati").
La seconda potrebbe essere un cortometraggio a sé stante: il giovane ed elegante ragazzo di provincia - con indosso un completo bianco - prende posto nella trattoria Vesuviario, dove viene fatto accomodare insieme ad altri clienti, secondo la tradizionale convivialità romana, dettata dall'obiettivo di stipare più commensali possibili e all'origine del famoso pagamento "alla romana". L'esterno, qui pensato ad un passo dal celebre ristorante Da Giggetto al Portico d'Ottavia, è in realtà, come da consuetudine felliniana, che amava dire "non sono per il cinema-verità ma per il cinema-falsità", rigorosamente ricostruito in studio. L'atmosfera è quella popolare, fatta di stornelli romani, grande confusione, litigi di coppia (splendida la notazione della signorina "tu me stufi"), la passione per le lumache e il goffo tentativo di signorilità di una donna, tradita dalla filastrocca ricca di parolacce declamata dalla figlia all'improvviso. È grazie a inserti simili, di cui il film è ricco, che il biografo di Fellini Tullio Kezich ha ribattezzato Roma "trucidi ma belli", con un titolo che è al tempo stesso ironico e citazionista.
Una sequenza come questa, al pari soprattutto di quella geniale sulla sfilata di moda ecclesiastica all'interno di un palazzo nobiliare, alla presenza di cardinali e potentati - con gli splendidi costumi irriverenti di Danilo Donati -, fa capire da dove vengono molte delle suggestioni declinate in chiave attuale del pluripremiato, e con merito, La grande bellezza (Sorrentino 2013), che di fatto deve tantissimo a La dolce vita e proprio a Roma, che d'altronde in Italia non ebbe nessun successo immediato.
Allo stesso tempo, dopo la ristorazione e prima del potere ecclesiastico, non può mancare la commistione tra prostituzione e rovine classiche, che fanno di Caracalla un set perfetto, che Fellini ripropose spesso - si vedano ad esempio Le notti di Cabiria (1957) e ancora La dolce vita (1960) - e in cui vediamo la potente immagine di un donnone felliniano che fu anche una delle immagini portanti dell'intero film. Il rapporto con il sesso a pagamento è poi ripreso nella visione dei bordelli, con il regista che porta il suo alter ego, e quindi lo spettatore, in due case di livello opposto, quello per il popolo e per i militari in libera uscita e quello per i ceti più abbienti.
Fellini, grazie al montaggio di Ruggero Mastroianni, va continuamente avanti e indietro tra la Roma della sua giovinezza, in cui dà il meglio di sé, e quella di inizio anni Settanta, contemporanea alla pellicola, che per quanto valida è sicuramente meno nelle sue corde: così l'annosa questione della viabilità romana sembra raccogliere le polemiche e le lamentele - tuttora esistenti - sul Grande Raccordo Anulare e sulla metropolitana, ricordando che "la burocrazia è ancora più imprevedibile del sottosuolo". Nel primo caso, in cui c'è spazio anche per un cameo del regista mentre si sposta con la troupe - lo vedremo ancora a Villa Borghese chiacchierare con gli studenti universitari che tentano di politicizzare il suo cinema -, Fellini ci racconta il traffico, che fatalmente diventa insostenibile quando inizia a piovere, e la strada stessa assurge ad un ennesimo spaccato di vita quotidiana, tra incidenti, dialoghi non sempre politically correct degli automobilisti, che costituiscono un'ennesima galleria di volti, il tifo da stadio, le proteste contro "i padroni borghesi", ma anche un cavallo che galoppa a ritmo più sostenuto della auto imbottigliate e, infine, lo splendido e surreale momento in cui l'ingorgo termina davanti al Colosseo.
Grazie alla sequenza sugli scavi per la metropolitana, Fellini inserisce uno dei momenti più lirici del film: anche in questo frangente, come per l'apparizione del Colosseo appena descritta, il regista riminese inventa un sogno, stavolta in chiave archeologica, come il ritrovamento di intere pareti affrescate nell'antichità che, però, al contatto con l'aria e la luce scompaiono gradualmente, lasciando senza fiato i pochi fortunati che hanno potuto ammirare, seppur per pochi istanti, quei capolavori.
La sequenza, da brividi, è accompagnata dal frastuono delle potenti macchine escavatrici, uno dei tanti rumori diegetici presenti nel film che, insieme al vento, al vociare delle persone, ai clacson e ai rombi dei motori dell'evocativo finale che vede sfrecciare un gruppo di moto davanti ai principali monumenti della città, in una sorta di versione tutta romana di Easy Rider (Hopper 1969), stanno a testimoniare quale sia stato l'incredibile lavoro sul sonoro, di cui la rassicurante musica di Nino Rota è solo uno degli elementi.
L'omaggio felliniano a Roma ha punti di massima ironia, che oltre ai momenti già citati della cena in strada e della sfilata ecclesiastica in cui si vedono preti coi pattini e suore con le "ali ventilanti", raggiunge altri notevoli picchi: si pensi all'operatore sul dolly in Piazza di Siena che vede persone al lavoro e si sente rispondere dal basso "se vedi gente che lavora, nun è Roma!", ma soprattutto all'inserto dedicato all'avanspettacolo - "la via di mezzo tra il Circo Massimo e il casino" - negli anni della Seconda guerra mondiale. Il pubblico a dir poco indisciplinato, che interagisce e battibecca con gli "artisti" sulla scena, fino ad esprimere il proprio dissenso con il proverbiale lancio del gatto morto al malcapitato di turno (in questo caso interpretato da un giovane Alvaro Vitali), è messo a tacere solo dalla sirena antiaerea - si tratta del bombardamento di San Lorenzo - e dal rude presentatore dalla voce roca che li sa tenere a bada. Aggiungo una suggestione, forse del tutto personale, ma questo personaggio è così simile al cameriere che suggerisce temi di conversazione filosofica ai clienti, interpretato da John Cleese, ne Il senso della vita (1983), da far pensare che i Monty Python possano essersi ispirati al film di Fellini (v. 1 da 7'20''; e 2).
Il presentatore da avanspettacolo in Roma
e John Cleese ne Il senso della vita
Il regista romagnolo, infine, torna ancora alla Roma popolare con la Festa de' Noantri, raccontata negli anni '70, che oltre al folklore delle bancarelle o del ring da pugilato montato in piazza - con la romanissima reazione dello sconfitto che urla "non sei nessuno" a colui che l'ha battuto - dà la possibilità di toccare di nuovo la tematica politica con la scena della polizia che carica i ragazzi che suonano e cantano attorno alla fontana di piazza Santa Maria in Trastevere. Che un regista come Fellini, di certo meno attento di altri suoi colleghi ai temi politici, avverta la necessità di un terzo inserto di questa natura, dopo la protesta contro i padroni lungo il GRA e, soprattutto, la scena a Piazza di Siena con alcuni studenti universitari che lo interrogano sul suo cinema poco impegnato, e a cui risponde "si deve fare solo ciò che è congeniale", la dice lunga sul clima che si respirava in quegli anni, e l'opposizione messa a tacere di un signore che difende i ragazzi, sostenendo il loro totale pacifismo, sembra essere un chiaro segnale della posizione del cineasta.
Prima dei carrelli della mdp che segue le moto rombanti in giro per il centro e dell'ultima inquadratura che le immortala subito dopo aver superato le mura aureliane in direzione sud su via Cristoforo Colombo, proprio durante la festa trasteverina allo scrittore statunitense Gore Vidal viene riservata la più bella linea di sceneggiatura dell'intero film, che meglio di ogni altra traduce in parole il pensiero di Fellini sulla città: "Roma è la città delle illusioni: non a caso qui ci sono la Chiesa, il governo e il cinema, tutte cose che producono illusione". 
A fare da contraltare a questo elevato registro di scrittura, ci pensa la dissacrante apparizione di Anna Magnani, l'unico grande nome presente nel film - furono tagliati i cameo di Marcello Mastroianni e Alberto Sordi -, scelta non come attrice quanto piuttosto come icona della romanità: nel suo brevissimo passaggio sorride scanzonatamente alle pompose frasi di Federico Fellini che la definiscono "lupa e vestale, aristocratica e stracciona...", rispondendogli "chi so io? de che? A Federi', va a dormì va [...] Bonanotte!" (vedi).
Roma è servita...  

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