giovedì 18 giugno 2020

Da 5 Bloods - Come fratelli (Lee 2020)

Spike Lee ci regala il suo film sul Vietnam, ma saggiamente si distanzia dalla narrazione degli eventi bellici veri e propri, su cui sono stati creati fin troppi capolavori, e incentra il tutto su una storia ambientata ai nostri giorni, pur se con tanti rimandi ad allora, con un frequente ricorso al flashback. Come ha quasi sempre fatto nella sua filmografia, racconta gli eventi dal punto di vista della comunità afroamericana, cosicché la vicenda portante vede protagonisti quattro reduci neri che combatterono quella guerra, perdendo un loro compagno, Norman, nel dicembre del 1971 (trailer).
La pellicola, che nel 2013 era nata come un progetto per Oliver Stone, nel quale i protagonisti erano bianchi, inizia con tre minuti di introduzione che ricostruiscono il contesto, partendo dalle parole di Muhammad Alì che rifiuta di partire in guerra per il Vietnam, con il celebre "non mi hanno mai chiamato negro", e prosegue con l'alternanza di foto di soldati e di vittime rimaste nella storia, compresa quella di Nick Ut con la piccola Kim Phuc nuda, la “bambina del napalm”, ma anche le immagini dell'"esecuzione di Saigon", di Nixon che dà le storiche dimissioni, di Lyndon Johnson, ecc. 
Un'ellissi di una piazza in Ho Chi Min City (già Saigon) ci porta al presente, dove Paul (Delroy Lindo), Otis (Clarke Peters), Eddie (Norm Lewis) e Melvin (Isiah Whitlock Jr.) sono appena arrivati in un albergo per il loro soggiorno, in cui sperano di trovare e riportare negli Stati Uniti i resti dell'amico Norman (Chadwick Boseman), il quinto dei 5 bloods del titolo, che allude al modo fraterno con cui i soldati neri iniziarono a chiamarsi tra di loro in Vietnam. L'obiettivo, però, è soprattutto una cassa di lingotti d'oro che avevano nascosto allora e che non erano più riusciti a trovare perché il napalm aveva cancellato tutto. Una caccia al tesoro a cinquant'anni di distanza, che fatalmente si complicherà...

Il regista di Fa' la cosa giusta alterna spesso i momenti della guerra con il viaggio al presente dei protagonisti e differenzia i due tempi anche attraverso la modifica del formato della pellicola: 4:3 per i flashback e il widescreen per la contemporaneità, creando, nelle transizioni, un effetto paragonabile a quello liberatorio di Mommy (Dolan 2014), dove però aveva tutt'altro significato, in senso espressionistico, mentre qui ha solo un bell'effetto cronologico e filologico.
Spike Lee omaggia in diversi frangenti il grande cinema sul Vietnam: un elicottero che passa davanti al sole al tramonto è la più immediata citazione iconografica da Apocalypse Now (1979), ma il film di Coppola torna in maniera esplicita con il suo titolo sullo schermo del locale disco in cui vanno i quattro amici e poi quando risalgono il fiume con una barca del tutto simile a quella in cui viaggiavano il capitano Willard e gli altri, tanto più con il sottofondo delle note de La cavalcata delle Valchirie.
In uno dei flashback, inoltre, Paul ricorda il momento più duro della sua esperienza in Vietnam e lo vediamo affrontare una donna vietcong, come accadeva in Full Metal Jacket (Kubrick 1987).
La cinefilia, già dichiarata sin dal soggetto, data la passione di Lee per Il tesoro della Sierra Madre (Huston 1948), è sfruttata anche in senso ironico, quando i quattro amici si ritrovano a scherzare per le vie di Saigon prendendo in giro l'inverosimiglianza di personaggi come Rambo e Walker Texas Ranger rispetto alle vicende del Vietnam. Per questo, subito dopo, citano invece un eroe vero, come Milton Olive, che salvò un gruppo di commilitoni saltando su una granata il 22 ottobre del 1965. In questo, come in tanti altri casi, Spike Lee utilizza lo stile documentaristico e, didascalicamente, inserisce foto delle persone citate dalla sceneggiatura a mo' di illustrazioni.
Nella stessa sequenza, peraltro, appare molto significativa la battuta pronunciata dal personaggio di Melvin che, mentre cammina con gli altri tra negozi con marchi statunitensi, dice: "non servivamo noi, avrebbero potuto aprire McDonald's, Pizza Hut o KFC e avremmo sconfitto i vietcong in una settimana", come in effetti è accaduto ormai da tempo in un Vietnam completamente occidentalizzato e globalizzato.
Il passato influisce su tutta la loro esperienza presente: in un locale due ex vietcong gli offrono da bere, creando soprattutto in Paul un certo disagio. Paul, infatti, è sicuramente il personaggio più arrabbiato per quanto successo allora e ancora oggi ne porta i segni: è contro gli stranieri e contro l'immigrazione negli Stati Uniti e rivela di aver votato per Trump, che Otis chiama "il presidente dai finti speroni".
Lo stesso Otis ha, invece, ancora parte del proprio passato lì nella vecchia Saigon: va a trovare Tiên (Lê Y Lan), la donna con cui era stato durante la guerra e da cui ora scopre di aver avuto una figlia. Sarà proprio Tiên, inoltre, a mettere il gruppo in contatto con Desroche (Jean Reno), che tratta con loro per l'eventuale esportazione dell'oro.
Quell'oro, infatti, - qui visibilissimo nella sua valigia e non solo un Macguffin come ad esempio in quella di Pulp fiction (Tarantino 1994), dove percepiamo della luce senza vedere il contenuto - nelle intenzioni di Norman doveva essere un risarcimento ai neri per aver costruito gli Stati Uniti ai bianchi ed essere andati in Vietnam per il 32% del contingente impiegato a fronte di un 11% della popolazione. Un intento che ci svela la dimensione politica del pensiero di Norman che in effetti, come ricorda Paul, fu per loro non solo il miglior soldato che conoscevano, ma anche l'uomo che li educò politicamente: "fu il nostro Malcolm [X] e fu il nostro Martin [Luther King]" è la splendida sintesi del ruolo di Norman all'interno del gruppo.
Non ci sono solo gli insegnamenti di Norman a ricordarci delle condizioni degli afroamericani durante la guerra in Vietnam. Tra i flashback, infatti, il regista inserisce anche i messaggi della radio di Hanoi che fa di tutto per "sensibilizzare" i neri statunitensi in modo da allontanarli dalla causa bellica, facendo leva sui fatti di cronaca negli Stati Uniti e su come, mentre i soldati sono lì a combattere, i bianchi stiano uccidendo la loro gente in patria.
E sarà Paul, sicuramente quello che più degli altri è stato segnato da Norman, che più avanti preciserà ai vietnamiti "siamo finiti in una guerra immorale che non era nostra, per dei diritti, dei diritti che non avevamo".
Al gruppo si unisce anche il figlio di Paul, David (Jonathan Majors), preoccupato dalle condizioni psicologiche del padre, che ha a tutt'oggi disturbi post traumatici tipici dei reduci che gli causano attacchi di panico, visione di fantasmi e di Norman su tutti: uno dei momenti più toccanti dell'intera pellicola è proprio l'abbraccio tra i due vecchi amici in una di queste visioni, che Spike Lee trasforma in un abbraccio circolare d'ispirazione hitchcockiana ruotando attorno ai due con la mdp.
Sarà lo stesso David a conoscere Hedy (Mélanie Thierry), "come Hedy Lamarr, quella vecchia star di Hollywood", in un'altra citazione cinefila. Lei, attanagliata dal senso di colpa di una famiglia che ha fatto soldi sfruttando il Vietnam, ha fondato un'associazione, la LAMB (Love Against Mines and Bombs) per detonare bombe inesplose sul territorio, un'attività che naturalmente tornerà utile all'interno della trama. Hedy lì è con un gruppo di militanti (tra loro c'è anche Simon, interpretato da Paul Walter Hauser, recentemente protagonista di Richard Jewell - Eastwood 2019, nonché già utilizzato da Spike Lee in BlacKkKlansman - 2018), che si ritroveranno ad interagire con i personaggi principali.
In tal senso la parte più rilevante del film è quella della ricerca dell'oro e delle ossa di Norman in una particolarissima gita sulla montagna, con tanto di metal detector, che trasformerà una caccia al tesoro che è anche inevitabilmente memoria di guerra in una guerra vera e propria, in cui si ritrovano coinvolti vietnamiti, reduci statunitensi e volontari .
Anche in questa sezione, la sceneggiatura, che per un semplice "you better think" tira in ballo Aretha Franklin (con tanto di foto), richiama personaggi della cultura afroamericana degli ultimi decenni e così trova spazio persino per l'ostacolista Edwin Moses, citato da Paul come "l'uomo che sapeva volare" in un momento di difficoltà del figlio.
Da 5 Bloods non credo possa essere ricordato come il miglior film di Spike Lee, anche se in questo momento storico il suo valore potrebbe essere amplificato (con incredibile tempismo ci sono anche i cori di Black Lives Matters), ma la sua valenza politica è la solita, potente, didattica, necessaria, magari con qualche eccessivo indugio sulla retorica, che però in storie fatte di memoria e sofferenza non può non esserci.
Tanti i momenti di commozione, dalle parole di Muhammad Alì a quelle di Martin Luther King, dai ricordi di Paul alla bella lettera lasciata al figlio David... ma, nonostante la forse eccessiva lunghezza della pellicola (2h35'), non perdete gli ultimi fotogrammi, perché solo lì troverete l'identitaria firma di Spike Lee con due personaggi sul carrello insieme alla mdp. Perché un autore è sempre un autore, anche nei suoi film minori...

1 commento:

  1. Bellissima recensione, molto dettagliata, grazie! Essendo un prodotto Netflix non so quando riuscirò a vedere questo film, visto che mi ostino a non abbonarmi, però a Spike Lee bisogna sempre dare una chance nonostante ogni tanto prenda qualche cantonata pure lui! Concordo sulla sua autorialità!

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