venerdì 26 giugno 2020

L'uomo invisibile (Whannell 2020)

Leigh Whannell, noto soprattutto come sceneggiatore per aver creato la saga di Saw insieme a James Wan, stavolta, oltre a scrivere un soggetto che aggiorna un mito dell'horror classico, passa dietro la mdp per la terza volta. Il risultato è discreto, con ottime punte di tensione e alcune parti meno riuscite; il film, però, che ha un evidente calo nella seconda parte, vive un'ulteriore impennata nel finale, con una serie di colpi di scena avvincenti (trailer).
Su tutto brilla la stella di Elisabeth Moss, protagonista costantemente in scena, bravissima come sempre dall'inizio alla fine.
La Universal prosegue nel suo progetto Dark Universe, compiendo, per ora, una trilogia che rilegge tre suoi mostri sacri - è il caso di dirlo - anni '30 e, dopo Dracula Untold (Shore 2014) e La mummia (Kurtzman 2017), tocca a L'uomo invisibile. Del romanzo di fine Ottocento di H.G. Wells, infatti, la nuova pellicola non ha pressoché nulla, se non l'idea del grande fisico, qui genio dell'ottica, capace di grandi invenzioni. Non c'è traccia nemmeno dei successivi adattamenti cinematografici, né delle bende di Claude Rains del capolavoro di James Whale (1933). E così, al centro della trama, non ci sono le vicende dello scienziato, bensì quelle della sua compagna, oppressa e vessata da lui, in un pieno adeguamento (strategico?) a tematiche socialmente più attuali.
Non c'è la calma iniziale di molti horror nel film di Whannell e, dopo i titoli di testa dai contorni gocciolanti mentre le onde si infrangono sugli scogli, seguiamo subito Cecilia (Elisabeth Moss) in fuga nottetempo dalla splendida casa sul mare in cui vive con Adrian (Oliver Jackson-Cohen).
La villa è una sorta di prigione dorata, piena di telecamere di sorveglianza e allarmi, dotata di mura che la donna è costretta a scavalcare per trovare la libertà. Cecilia, infatti, da tempo si sente braccata e controllata dal compagno e solo ora trova il coraggio di allontanarsi da lui, grazie anche all'aiuto della sorella, Emily (Harriet Dyer), e di un amico d'infanzia poliziotto, James (Aldis Hodge). 
L'improvvisa morte di Adrian, però, le regala una strabiliante eredità di cinque milioni di dollari, come le comunica il fratello dell'ex, Tom (Michael Dorman), e questo le dà la possibilità di regalare alla figlia di James, Sidney (Storm Reid), un conto in banca che col tempo le permetterà di pagarsi gli studi nel campo della moda.
Tutto sembra procedere nel migliore dei modi, ma naturalmente non sarà così e le cose si complicheranno a dismisura per Cecilia, di cui presto nessuno potrà più a fidarsi...

Whannell sembra tenere bene a mente la lezione di un grande maestro dell'horror come Jacques Tourneur: il buio e ciò che non è possibile vedere possono essere più spaventosi di ciò che si vede. Non è quindi un caso che la pellicola del regista australiano funzioni meglio proprio nei momenti in cui il personaggio del titolo resta completamente invisibile, anche grazie a una straordinaria Elisabeth Moss che recita convincentemente anche nella scena vuota, mentre, quando compare la tuta che rende invisibili, tutto perde d'intensità, trasformando la storia in qualcosa di più simile ad un film di supereroi che ad un horror.
La regia funziona e la mdp si aggira per gli ambienti giocando sul ruolo dell'invisibilità: riprende in soggettiva ciò che sembra vedere Cecilia con movimenti improvvisi, con ansiogene panoramiche, con attenti sottinsù che ci rivelano la presenza di chi non vediamo. Naturalmente alla tensione creata dalla mdp contribuiscono in maniera determinante anche la fotografia di Stefan Duscio e le musiche di Benjamin Wallfisch.
Una doppia curiosità sembra rivelare una certa passione di Whannell per la mitologia: il cane di Adrian e Cecilia si chiama Zeus, mentre la tuta inventata da Adrian, costituita da centinaia di telecamere su tutta la sua superficie, ricorda inevitabilmente Argo, il gigante dai cento occhi che Era mise sulle piume di un pavone, animale a lei sacro, secondo la tipica spiegazione eziologica del mito.
Il finale con una Elisabeth Moss che tanto ricorda la Jeanne Moreau de La sposa in nero (Truffaut 1968) va seguito nei dettagli, davvero ben architettati e degni di un buon noir, riflettendo su come anche i più moderni sistemi di registrazione audio e video possano essere ingannati...

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