martedì 30 giugno 2020

La tragedia di un uomo ridicolo (Bertolucci 1981)

"Lo so che sono ridicolo, l'ho scoperto quando avevo cinque anni... però c'ho il mio stile".
Con questa frase pronunciata davanti allo specchio, Primo Spaggiari, industriale caseario parmense d'origini contadine, interpretato da uno splendido Ugo Tognazzi, che per questo ruolo vinse il premio come miglior attore a Cannes e ai Nastri d'argento, si presenta a se stesso e a noi, evidenziando il titolo del film. La sua voce off ci accompagnerà per tutto il racconto (guarda il film).
Primo sta vivendo una crisi di mezza età e, nel giorno del proprio compleanno, confronta una propria foto di quel momento con una di 25 anni prima, facendo fatica a riconoscersi. Avverte come stilettate le critiche che gli arrivano dall'esterno, e soprattutto quelle del figlio, Giovanni (Ricky Tognazzi), che lo ritiene un cafone per aver comprato una barca, dichiarato status symbol di un industriale come lui, un tempo partigiano e membro del PCI.
Giovanni, anche per reazione, è un attivista di estrema sinistra, e proprio mentre il padre è assorto in questi pensieri, viene rapito a poche decine di metri dalla villa di famiglia, una scena che Primo vede dal terrazzo grazie al binocolo regalatogli dal figlio.
Il dolore per l'accaduto viene condiviso da Primo, da sua moglie, Barbara (Anouk Aimée) e da Laura (Laura Morante), la ragazza di Giovanni che fino ad allora, per scelta del figlio, i genitori non avevano conosciuto. Anche in questo caso, quella che sembra una scelta di riservatezza, però, stando alle parole di Laura, si rivela essere in realtà causata dalla vergogna che Giovanni prova per il padre, una motivazione che genera la risposta seccata di Barbara che replica alla ragazza dicendo che forse, piuttosto, suo figlio si vergognava di lei come fidanzata.
Per ottenere i soldi del riscatto, gli Spaggiari decidono di vendere la fabbrica, ma il rapimento è reale o si tratta di una farsa messa in scena proprio per salvare l'impresa? Non c'è nulla di chiaro attorno alla vicenda principale e Laura e Adelfo (Victor Cavallo), entrambi dipendenti del caseificio di Primo, come molti abitanti del circondario, sono in combutta e sempre più certi della morte di Giovanni. Proprio uno scambio tra loro due, peraltro, fornisce una delle più suggestive definizioni del terrorismo di quegli anni, con Adelfo che mestamente dichiara "forse siamo noi i veri terroristi" e Laura che gli risponde "siamo solo proletari in apnea sotto la superficie liquida della storia".
Sulla sostanziale ambiguità del vero, lo stesso Bertolucci si pronunciò in maniera inequivocabile parlando del film e di quel momento storico, citando i casi dell'omicidio Kennedy e del rapimento Moro, e va detto che, a 40 anni di distanza, le sue parole appaiono profetiche, perché tutto appare amplificato in quella direzione: "l’ambiguità oggi fa parte della nostra dieta quotidiana. Non c’è più alcuna certezza, compresa quella che riguarda gli eventi".
La camminata con la valigia del riscatto dei coniugi Spaggiari nel bosco, dove hanno la villa nei pressi del Castello di Torrechiara, vede ancora una volta protagonista Primo.
È lui che commenta amaramente come "una volta per boschi ci andavo per funghi o a fare l'amore [...] oggi invece in Italia è del tutto normale camminare tra i castagni con un miliardo in contanti"; è sempre lui che reagisce allo spavento della moglie, che spara un colpo di pistola, con un eloquente "nei boschi di castagni capita spesso di sentirsi spiati..."; ed è lui a cantare un passo dell’aria Di Provenza il mar, il suol de La traviata, “ah il tuo vecchio genitor, tu non sai quanto soffrì...”, con cui Germont cerca di convincere Alfredo a ritornare in famiglia dopo la lettera d’addio di Violetta, ovviamente non un caso data la trama della pellicola. 
Il rapporto di Primo con la sua azienda è combattuto: da una parte l'orgoglio per essere partito anni prima da una fabbrica che produceva poche forme di grana al giorno ed essere arrivato alla grande produzione attuale, dall'altra la consapevolezza che "se non fossi il padrone non avrebbero rapito mio figlio". Ed è durante una visita allo stabilimento che la voce narrante di Primo riflette sul procedimento di realizzazione del formaggio e si lascia andare ad un'ardita similitudine con la famiglia: "il ciclo della lavorazione del latte mi fa venire in mente la catena della famiglia, il liquido che diventa solido".
Il boscaiolo di Camille Pissarro in casa Spiaggiari
Non molte le trovate registiche degne di nota, in quello che va comunque considerato un film minore di Bernardo Bertolucci, pur nella sua intensa intimità. Tra queste, però, la bella soggettiva dall'auto con gli altoparlanti, con cui Adelfo, operaio dell'azienda e amico di Giovanni, segue Primo per le vie di Parma. La sequenza è decisamente straniante, il ragazzo infatti chiama il padrone con quel mezzo creando un'attesa altisonante in tutti i sensi, senza che ce ne sia in realtà alcun bisogno, come non manca di sottolineare Primo una volta raggiunto. Durante la sequenza, peraltro, il personaggio di Tognazzi passeggia per la zona centrale della città e lo si vede passare, ad esempio, davanti al battistero romanico.
Il dipinto di Ligabue nei due film di Bertolucci
La consueta cultura storico-artistica di Bertolucci, però, si nota soprattutto nella scenografia di casa Spaggiari, in cui si vedono diversi quadri, tra i quali, in salotto, Il boscaiolo di Camille Pissarro ("è falso, l'ha comprato mia moglie", dice Primo), e un Ligabue ("quello è vero"), ai quali si interessa anche il maresciallo Angrisani (Vittorio Caprioli) che si divide il ruolo dei carabinieri che indagano sulle vicende del rapimento con il colonnello Macchi (Renato Salvatori), e che cita l'allora recente sceneggiato sul pittore di Zurigo, andato in onda sulla RAI nel 1977. 
Il dipinto di Ligabue, sopra il divano, raffigura una scena di lupi che attaccano dei cavalli, ed era stato già utilizzato da Bertolucci per i titoli di testa de La strategia del ragno (1970), una lunga sequenza di opere del pittore naïf che significativamente si chiudeva proprio con questo dipinto sul nome del regista.
In un altro ambiente della casa, infine, si vede un'altra opera di grande rilevanza: è Nel parco del parmense Amedeo Bocchi (1915), conservato alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma.

Nel parco di Amedeo Bocchi (1915) dietro Aimée e Tognazzi
Alla malinconia di fondo che pervade l'intera pellicola danno un tocco in più la fotografia di Carlo di Palma e, soprattutto, la musica di Ennio Morricone, completamente impostata su questi toni, sin dal tema portante, ma anche col brano dedicato a Barbara o in Settanta volte sette.
In questo senso, in un'altra prova di bravura davanti allo specchio, anche i versi di per sé comici intonati da Primo, tratti da Ho detto al sole di Ettore Petrolini ("son contento di morire ma mi dispiace, mi dispiace di morire ma son contento"), contrastano con l'umore, il volto e l'espressione dell'attore (vedi).
Anche la sessualità di Primo è malinconica e confusa. Si bacia con Laura, che più avanti riequilibra il disagio che prova davanti a lui rimanendo a petto nudo: non c'è passione in questi gesti, solo un processo di azione e reazione, rapporti di potere a confronto. E così, con istinto rabbioso, Primo farà l'amore con Barbara in un'altra sequenza che sa comunque di amarezza. Le parole che il personaggio di Tognazzi rivolge a Laura dicono molto su di lui ma anche sul pensiero di Bernardo Bertolucci, mai nascosto a riguardo, da Ultimo tango a Parigi (1972) a The dreamers (2003): "la morale non esiste, quello che conta è la sincerità, la morale semmai viene dopo".
Come sempre in Bertolucci, anche La tragedia di un uomo ridicolo è un film durante il quale si pensa molto, perfettamente calato nel contesto di quegli anni difficili a cavallo tra settanta e ottanta, tra scontri politici e generazionali ("i figli che ci circondano sono dei mostri, più pallidi di come eravamo noi", dice Primo a Barbara). Sono anni in cui il sentire pubblico e quello privato stridono e non permettono di trovare un equilibrio, un rasserenamento, che qui arriva nel bel finale, tra realtà e sogno, ambientato fuori da una balera circondata dalla neve, al suono di un valzer ballato a tre da Laura, Barbara e Giovanni (con un piede scalzo... durante il rapimento aveva perso una scarpa).
Che si tratti del momento migliore del film, lo certificano la bellissima inquadratura della scena dalla grande vetrata circolare della balera e la battuta di evidente ascendenza evangelica che Primo rivolge allo spettatore, tra incredulità e semplice accettazione: "il compito di scoprire la verità sull'enigma di un figlio rapito, morto e resuscitato lo lascio a voi, io preferisco non saperlo".

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