mercoledì 10 ottobre 2018

BlacKkKlansman (Spike Lee 2018)

"La politica è in tutto"... la battuta di Patrice, la bella e affascinante guida del movimento studentesco nero di Colorado Springs, potrebbe essere lo slogan del film vincitore del Grand Prix al festival di Cannes e, in fondo, del pensiero di Spike Lee.
Il suo cinema, soprattutto all'inizio della carriera, è sempre stato molto politico, da Fa' la cosa giusta (1989) a Mo' better blues (1992), da Jungle fever (1991) a Malcolm X (1992). Ora il grande regista afroamericano torna all'impegno dei primi anni, complice anche l'attuale situazione politica statunitense, e racconta una storia magnifica, incredibilmente accaduta all'inizio degli anni Settanta, quando lo scontro tra bianchi e neri era all'ordine del giorno... ma in fondo, ci indica Spike Lee, la storia si ripete, sempre uguale a se stessa, una certezza che non può non spingere a schierarsi, a ribellarsi e, davvero è il caso di dirlo, a fare la cosa giusta (trailer).

Ron (John David Washington) è un giovane poliziotto nero ad inizio carriera e, dopo una noiosa esperienza in archivio, viene inserito in un programma di intelligence in cui, sotto copertura, indaga sui conflitti sociali tra bianchi e neri.
Fino a quel momento non ha mai dato molto peso alla questione razziale, ma ascoltare il comizio di Stokely Carmichael (Corey Hawkins) che, come tanti afroamericani del tempo, ha cambiato il suo nome in qualcosa di più consono alle proprie origini e si fa chiamare Kwame Turé, e avvicinarsi alla splendida attivista Patrice (Laura Harrier), lo fa riflettere a riguardo. È questo il momento in cui, per andare avanti nelle indagini, contatta telefonicamente il Ku Klux Klan della zona, professandosi un razzista intollerante nei confronti di tutte le minoranze.
La situazione che naturalmente risulta di grande comicità, verrà risolta con lo sdoppiamento di Ron: a telefono continuerà ad essere lui, ma quando dovrà incontrare i membri dell' "organizzazione" sarà sostituito da Flip (Adam Driver), che pian piano riuscirà a farsi accettare in quel contesto.
Tratto dal libro dell'ex poliziotto Ron Stallworth, Black Klansman, il film aggiunge una K tra le due parole del titolo unendole nel KKK che è centrale nella trama. Spike Lee adatta il soggetto scrivendo la sceneggiatura in collaborazione con David Rabinowitz, Charlie Wachtel, Kevin Willmott.
L'inizio è folgorante e particolarmente cinefilo: prima la scena di Via col Vento (Fleming 1939) in cui Rossella O'Hara è nel campo di battaglia tra i feriti; poi un finto filmato di repertorio, in bianco e nero, dove il leader segregazionista Kennebrew Beauregard (Alec Baldwin) sostiene la superiorità della razza bianca con assurdi discorsi pseudoscientifici, mentre alle sue spalle scorrono immagini di Nascita di una nazione (Griffith 1915), pellicola basilare nella storia del cinema statunitense, ma che assurse a simbolo per i razzisti americani e soprattutto diede nuova linfa al Ku Klux Klan, al punto da spingere il regista a girare subito dopo Intolerance (1916), per condannare tutte le forme di violenza.
Di Birth of a Nation, però, Spike Lee recupera proprio la sua valenza simbolica e nel corso del film ci torna più volte: vediamo la locandina nell'ufficio di uno dei leader del KKK; lo guardano tutti insieme i tesserati della contea come fossero ad un fantafestival, esultando alla colpevolezza e alla condanna di un nero.
Si sorride e ci si arrabbia guardando BlacKkKlansman, perché Spike Lee alterna momenti molto divertenti a quelli di denuncia sociale, un accostamento perfettamente riuscito.
Ron risponde iconograficamente allo standard anni '70: si presenta al suo primo giorno di lavoro al comando di polizia con i capelli crespi e lunghi e camminando in stile molleggiato. Siamo nel 1972 e la sceneggiatura ce lo dice ancora attraverso la cinefilia... un collega di Ron sfoglia una rivista con le foto della bella Cybill Shepherd, ammirata l'anno prima ne L'ultimo spettacolo (Bogdanovich 1971), anche se l'uomo che sta guardando il giornale risponde "non amo i film in bianco e nero" (Bogdanovich lo girò così su consiglio di Orson Welles).
Tra i tanti momenti da ricordare c'è il discorso di Kwame Turé, incentrato sui canoni di bellezza: se in Malcolm X ci si soffermava sulla moda di stirarsi i capelli da parte degli afroamericani, rinunciando in qualche modo alla propria identità, qui Turé chiede al suo uditorio chi abbia deciso che la bellezza sia fatta di nasi stretti, labbra sottili e capelli lisci, quando tra i neri dominano nasi larghi e piatti, labbra carnosissime e capelli crespi, chiudendo poi con l'ennesimo esempio cinematografico, citando il Tarzan di Van Dike (1932) con Johnny Weissmuller, simbolo di quell'estetica suprematista bianca che le sue parole stanno condannando.
Proprio in questa sequenza, Spike Lee usa la mdp in maniera eloquentemente didascalica e, mentre il leader afroamericano parla dei tratti somatici della sua gente, inquadra i volti del pubblico, a tre a tre, decontestualizzandoli con un fondo nero che assolutizza quelle fisionomie, che nel frattempo si muovono nello spazio e sui diversi piani. Questa è una cifra stilistica tipica del regista, ma la sua firma più identitaria, quella rappresentata da uno o più attori che salgono sulla mdp e si muovono con lei, c'è comunque, anche se per vederla stavolta bisogna aspettare la fine della pellicola.
Altra scena madre è quella in cui Ron insegna a Flip a parlare come lui. Anche la questione linguistica è un motivo centrale del film: parlare wasp o jive è qualcosa di molto diverso, e quelli del KKK a telefono e dal vivo potrebbero notarlo. Guardando la scena sembra di essere davanti ad un film dei fratelli Coen: la comicità della situazione è evidente, la voce scura di Flip si adatta alla perfezione (ricordate Adam Driver corista baritono nello studio di registrazione di A proposito di Davis?), ma ad amplificare tutto ciò contribuiscono l'origine ebraica dello stesso Flip e la presenza del suo inseparabile collega, Jimmy, interpretato da Michael Buscemi, fratello del più celebre Steve, attore feticcio dei Coen, a cui non solo somiglia notevolmente dal punto di vista fisico, ma di cui riprende il personaggio tipico, sornione, irriverente e cinico.
La comicità Coen fa capolino spesso: vedere un afroamericano che a telefono insulta il proprio colore della pelle e dice di odiare ogni minoranza della società lascia di stucco non solo i colleghi della polizia, ma anche gli spettatori; che poi sia un ebreo a presentarsi ai membri del KKK, rende tutto ancora più esilarante, così come Ron che si troverà a fare da security per David Duke (Topher Grace), Gran Maestro del Ku Klux Klan.
Risulta un terzetto degno dei Coen anche quello del Ku Klux Klan, guidato da Walter (Ryan Eggold), il più razionale nonostante le idee professate, a cui si affiancano l'ottuso Ivanhoe (Paul Walter Hauser) e soprattutto la testa calda Felix (Jasper Pääkkönen), certo che Ron nasconda qualcosa e che, in fondo, sia ebreo, una cosa davvero inaccettabile per un convinto revisionista dell'Olocausto come lui.
Spike Lee, infine, dà il meglio di sé con un bellissimo montaggio alternato che contrappone le due realtà agli antipodi: da una parte la buffa iniziazione di Flip all'interno del KKK, dall'altra i membri del movimento studentesco nero, guidati da Patrice, che ascoltano il racconto di Jerome Turner, piccolo ruolo per Harry Belafonte che, seduto su una grande sedia Peacock, immagine immediata degli Stati Uniti del sud, narra la tortura di Jesse, un ragazzo arso vivo in seguito all'ondata di razzismo conseguente all'uscita di Birth of a Nation, il celebre film di Griffith già ampiamente citato, che nell'altro contesto stanno guardando nello stesso momento con entusiasmo.
Come sempre nelle opere di Spike Lee, la colonna sonora ha un ruolo rilevante ed è di alto profilo (ascolta). Le musiche originali, tra cui spicca l'epica Firing Range, sono di Terence Blanchard, già collaboratore del regista di Atlanta moltissime volte, dai tempi di Jungle Fever (1991) fino a Chi-Raq (2015), passando per capolavori del calibro di Malcolm X (1992) e de La 25ª ora (2003). La selezione dei brani d'epoca è eccezionale: si va dalla magnifica Happy day, cantata dagli Edwin Hawkins Singers (1969), a Say It Loud It Loud ~ I'm Black & I'm Proud di James Brown, perfetta per accompagnare le scene degli studenti neri che si riuniscono per i propri diritti; da We Are Gonna Be Okay di Dan Whitener a Too Late to Turn Back Now cantata dai Cornelius Brothers & Sister Rose, e sulle cui note Ron e Patrice ballano al loro primo appuntamento; da Ball of confusion dei Temptations, usata anche per il trailer, fino ad un capolavoro come Lucky Man di Emerson, Lake & Palmer, che fa da rasserenante chiosa alle vicende di Ron. 

Oltre le acconciature e la musica, Spike Lee contestualizza la storia con tanti altri elementi: usa lo split screen (sia con taglio verticale che diagonale), tanto in voga nel cinema anni '70, ma soprattutto cita Soul Train (la celebre trasmissione musicale iniziò nel 1971) e la Blaxploitation. Ai b-movie black di quegli anni, in un ennesimo omaggio cinefilo, dedica una scena stile Tarantino (citano anche Pam Grier, protagonista di Jackie Brown), con Ron e Patrice che passeggiano citando alcuni film e immaginandosi nei panni dei protagonisti, mentre sullo schermo compaiono le relative locandine.
La regia è sempre di alto livello e, oltre a quanto già sottolineato, Spike Lee dimostra la sua perizia in diversi altri frangenti, come in occasione della telefonata di Felix, con la mdp che gira attorno la cabina (qualcosa di molto simile era in Pulp Fiction, con Bruce Willis nella stessa situazione); quando pone Ron, durante l'autocelebrazione del KKK, davanti ad una vetrata istoriata, proprio sotto la raffigurazione della mano di Gesù benedicente, non certo un dettaglio casuale.
E poi la politica, come si diceva in apertura, politica che naturalmente riguarda da vicino anche gli Stati Uniti del momento: non è un caso che David Duke pronunci più volte il tormentone di Trump "America First", ripreso da Woodrow Wilson che lo usò nell'elezione del 1920 e troppo spesso recentemente scimmiottato fino alle nostre latitudini.
Il messaggio è chiaro e Spike Lee lo precisa con i filmati più recenti, tra cui quelli con gli scontri del 2017 a Charlottesville, in cui gruppi di esaltati suprematisti uccisero tre persone, e poi ci mostra anche il simbolo più diretto: la bandiera statunitense a testa in giù, che perde i suoi colori sbiadendo in un eloquente bianco e nero...

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