giovedì 28 maggio 2020

Favolacce (D. e F. D'Innocenzo 2020)

Un fulmine a ciel sereno... 
È questo l'effetto causato da Favolacce nel cinema italiano, un effetto indubbiamente straniante, complice forse anche l'impossibilità della visione in sala, ma resta il fatto che la seconda pellicola dei fratelli D'Innocenzo ha messo d'accordo tutti vincendo persino l'Orso d'argento per la miglior sceneggiatura a Berlino (trailer).
Il film non può lasciare indifferenti, ha la forza disturbante e perturbante di Michael Haneke e molti dei suoi personaggi appaiono come la diretta evoluzione, a cinquant'anni di distanza, di quelli di Pier Paolo Pasolini. L'aura di Matteo Garrone aleggia tutt'intorno, sin dal titolo, in cui le Favolacce, appunto, sembrano la distorta versione contemporanea, forse ancora più cupa, de Il racconto dei racconti (2015), senza dimenticare che i gemelli hanno anche lavorato alla sceneggiatura di Dogman (2018).
I due cineasti romani restano nell'estrema periferia dell'Urbe, territorio del loro primo film, La terra dell'abbastanza (2018), ma si spostano sia "geograficamente" che socialmente, passando dal Villaggio Falcone sulla Prenestina a Spinaceto, nel quadrante più a sud della città, dove i protagonisti vivono in una serie di villette a schiera hopperiane apparentemente fuori da qualsiasi contesto (una delle locandine del film, peraltro, riprende dichiaratamente lo stile del pittore statunitense). E pensare che quasi trent'anni fa Nanni Moretti sulla sua vespa ripeteva ironicamente "Spinaceto, pensavo peggio" in Caro Diario (1993)...
Con genitori appartenenti a questa piccola e medio-borghesia gretta, priva di interessi e di cultura, esclusivamente attenta all'apparenza, possono crescere solamente figli infelici e sempre in difficoltà, impossibilitati a vivere la propria età e che, soprattutto se particolarmente sensibili, accumulano odio per il mondo circostante.
La cornice della vicenda è data dalla voce off di un uomo (è quella di Max Tortora) che ci racconta di aver trovato il diario di una bambina, di averlo letto superando l'impasse iniziale di vederlo scritto con l'inchiostro verde e di averlo continuato egli stesso dopo l'interruzione improvvisa del testo originale. Il groviglio risultante da questo topos letterario, il ritrovamento di un manoscritto, quindi, è "ispirato a una storia vera, la storia vera è ispirata a una storia falsa, la storia falsa non è molto ispirata", un rompicapo che sa di beffardo oracolo.
La prima famiglia che i D'Innocenzo ci presenta è costituita da Bruno (Elio Germano), rimasto senza lavoro, nervosissimo e sempre pronto a scattare anche contro la moglie, Dalila (Barbara Chichiarelli), prima di "usare" i figli, Dennis (Tommaso Di Cola) e Alessia (Giulietta Rebeggiani), come riscatto personale, chiedendogli di leggere le proprie splendide pagelle dopo cena, davanti agli altri invitati. Con loro, infatti, ci sono Pietro (Max Malatesta), Susanna (Cristina Pellegrino) e la loro bambina, Viola (Giulia Melillo), che invece a scuola non va affatto bene. Il disagio è palpabile, le teste degli invitati sono basse: mettere in difficoltà gli altri, per giunta quelli che in teoria dovrebbero essere degli amici, sembra essere l'unica possibilità di rivincita per la frustrazione di Bruno.
La falsità è la costante dei rapporti tra questi adulti, cosicché Bruno e Pietro, che in altri frangenti diventano volgarmente e bestialmente complici, sono antagonisti non solo nella sequenza già descritta, ma anche più avanti, quando Pietro accusa Bruno e la sua piscina gonfiabile montata in giardino di essere le cause dei pidocchi della figlia ("sti pulciari, zecche comuniste"), costretta alla rasatura dei capelli e ad una parrucca nero corvino che da quel momento in poi, però, la rende un personaggio degno di un manga.
Eppure anche l'unico momento di complicità dei due padri non ha nulla di sereno ma, anzi, è forse quello più disturbante dell'intera pellicola. Tutto è perfettamente orchestrato: i due uomini spiano, dalla penombra di una stanza della casa, la madre di una bambina durante la festa a sorpresa organizzata per Viola. La donna in questione ha la colpa di essere bella e appariscente: questo basta a farle guadagnare una sequela di offese sessiste e maschiliste con cui i due commentano la sua figura, dimostrando la totale incapacità di esprimere la propria naturale attrazione se non in quel modo becero e assurdamente violento.
Tra gli altri personaggi c'è Vilma (Ileana D'Ambra), una ragazza poco più che adolescente, incinta, che si relaziona con il piccolo Dennis attraverso il proprio corpo esuberante, che usa come un'arma... una sorta di Gradisca felliniana filtrata in Pasolini, privata di ogni elemento sognante e fantasioso, che quindi si riduce in squallida e tutto sommato goffa manipolazione di un bambino.
E poi c'è Amelio (Gabriel Montesi), che vive solo con il figlio Geremia (Justin Korovkin). Li vediamo per la prima volta all'interno di un pick up, che poco dopo il padre fa guidare in un campo al ragazzo minorenne  urlando con orgoglio e commozione "sei come me!", un grido che risulta straziante.
Si tratta dell'ennesimo rapporto genitore-figlio totalmente fuori equilibrio, con il primo che tratta il secondo come un coetaneo, a cui confida persino le proprie mire sessuali, cercando persino di coinvolgerlo in un appuntamento con madre e figlia che nella sua fantasia potrebbe regalare soddisfazioni ad entrambi. Sarà proprio Geremia, più avanti, ad imbracciare un fucile giocattolo e a fingere di sparare, mezzo nudo, davanti a uno specchio d'acqua, in un'evidente citazione del Gomorra di Matteo Garrone (2008).
Tutto è distorto e i bambini non possono far altro che vedere la realtà filtrata attraverso gli occhi deviati dei genitori, i cui valori e comportamenti sono costantemente diseducativi.
Le colpe di danni causati da ignoti non vengono mai cercate tra le invidie dei vicini, ad esempio, ma semplicemente attribuite, in maniera generica e razzista, agli zingari; molti bambini sono ossessionati dal sesso troppo spesso sbandierato dagli adulti ed evidentemente simbolo di una crescita agognata, anche se non sanno bene cosa sia ("almeno una volta facciamo sesso anche noi?" dice una bambina a Dennis).
Il qualunquismo di questa classe sociale, che punta semplicemente a sconfiggere gli altri e non a vivere insieme agli altri, è quella sempre più dominante ci avvertono i fratelli D'Innocenzo, quella che ci dà davvero poca speranza per il futuro.
E, stortura delle storture, tra i modelli adulti c'è anche un professore di lettere, quello che passa più tempo con i ragazzi e che per definizione dovrebbe colmare il loro vuoto culturale, che invece insegna agli allievi come utilizzare sostanze facili da trovare in casa per costruire esplosivi... indicazioni che non possono non fare breccia nelle menti più brillanti e sensibili, che solo così vedono la possibilità di "far esplodere il quartiere, così finisce tutto".

La resa degli attori è incredibile, tutti appaiono perfetti nei rispettivi ruoli, e il lavoro fatto dai D'Innocenzo sui bambini è ancora più sorprendente, tanto da far scomodare registi che con attori così piccoli hanno realizzato capolavori assoluti, e penso soprattutto a Yasuhiro Ozu (Sono nato ma..., 1932) o a Vittorio De Sica (Sciuscià, 1946 e Ladri di biciclette, 1948).
Il film, la cui sceneggiatura è sicuramente il suo fiore all'occhiello, è girato altrettanto bene e colpisce sin dall'inizio. Una delle prime sequenze mostra al ralenti i ragazzi che giocano spruzzandosi l'acqua, tutto appare rarefatto in un modo che tanto ricorda alcuni momenti de Il giardino delle vergini suicide di Sophia Coppola (1999).
Campi lunghi, riprese dall'alto funzionali a togliere specificità ai luoghi spersonalizzati in cui sono ambientate le storie dei protagonisti. E ancora, Bruno e Dalila si scambiano complimenti reciproci come perfetti genitori (sic!) in una sequenza in cui la mdp è lontana dalla finestra della loro camera da letto, ma pian piano si avvicina dall'esterno senza arrivare ad invadere il loro spazio. La perfezione formale cozza sempre con l'imperfezione di personaggi deliranti e con una percezione di sé così profondamente sbagliata.
Il punto più alto di questa forma, forse non a caso, è proprio nell'epilogo di quella coppia, costretta a vivere il dolore più grande che l'uomo possa immaginare... e lì Bruno dimostra la pochezza di se stesso, attraverso la perfetta interpretazione di Elio Germano e una regia davvero hanekiana che tiene la mdp su di lui, anche quando questo vigliaccamente torna a letto nell'attesa che sia la moglie a scoprire cosa è successo. Anche quando questo avverrà, come accade nelle pellicole del cineasta austriaco, la mdp resterà con Bruno, scandagliandone le reazioni, mentre l'azione tragica si svolge altrove, fuori dall'inquadratura.
La voce off, apparentemente delusa dal proprio racconto, ci avverte che come pubblico avremmo meritato di meglio e "non lo sfogo di un annoiato dalla vita", ma quella storia che aveva definito non molto ispirata lo è eccome, ed è inutile cercare la chiusura del cerchio in vicende così asimmetriche, distruttive e senza speranza. D'altronde le ultime note sono quelle seicentesche di Passacaglia della vita di Stefano Landi, con la ripetizione ossessiva del verso "bisogna morire"... i D'Innocenzo sono più neri del barocco più cupo in un film di cui sentiremo parlare per tanto tempo, questo è sicuro!

3 commenti:

  1. Un altro film perturbante e debitore della lezione di Haneke a cui si può avvicinare è L'ultima ora di Sèbastien Marnier.
    In quest'ultima pellicola il punto di vista era però quello del giovane insegnante, personaggio positivo e benevolo che si trovava prima giudicato e umiliato dagli allievi molto dotati ma disturbati di una scuola esclusiva e poi suo malgrado coinvolto nei loro progetti pseudo-ecologisti con finalità nichiliste.
    Sebbene l'atmosfera sia differente - nel film francese la centrale nucleare è una presenza viva che a un certo punto si appropria della scena - ci sono lo stesso spaesamento livoroso dei ragazzi rispetto agli adulti, lo stesso sguardo rassegnato ma nel contempo crudele, l'impossibilità di trovare una soluzione se non facendo saltare brutalmente gli schemi imposti dall'asfittica e irrecuperabilmente distratta borghesia, uguale a ogni latitudine. Qui il cerchio si chiude in un finale dalle sfumature horror, ma l'espediente conclusivo dell'opera dei D'Innocenzo è molto più inverosimile, affascinante e terribile. Come nelle favole nere migliori. (Balthazar)

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  2. Il figlio di Amelio nel film non si chiama Umberto, si chiama Geremia.
    Evidentemente un inciampo nel suo sontuoso ed erudita namedropping

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