sabato 9 maggio 2020

Psycho (Van Sant 1998)

Operazione filologica ai limiti del feticismo cinematografico... eppure lo Psycho di Gus Van Sant, remake shot by shot del capolavoro di Alfred Hitchcock, ha un indubbio fascino. Inutile dire che, in questa recensione, si dà per scontata la conoscenza dell'originale e se ne sconsiglia la lettura a chi non lo abbia mai visto, per gli inevitabili spoiler su entrambe le pellicole (trailer).
La storia inizia sempre l'11 dicembre a Phoenix alle 14.43, ma stavolta è il 1998 e non il 1959, cambiano ovviamente gli interpreti e, soprattutto, la pellicola è a colori, una differenza ravvisabile sin dagli splendidi titoli di testa di Saul Bass, in cui le righe in movimento si arricchiscono di un bel verde (remake originale). Il tutto ovviamente con la splendida musica di Bernard Hermann, qui riadattata da Danny Elfman.
Anche la durata è differente: 1h48 per il capolavoro originale, 1h39 per il remake. Phoenix, in questi quarant'anni è cambiata molto, ma la mdp hitchcockiana che dall'alto arriva al particolare, stile chiave di Notorious (1946), è puntuale anche qui ed entra, dallo spiraglio della serranda, nella camera dell'albergo a ore in cui hanno appena finito di fare sesso Samuel (Viggo Mortensen) e Marion (Anne Heche) durante la pausa pranzo (remake / originale).
Marion poco dopo, infatti, tornerà nell'agenzia immobiliare in cui lavora e lì si vedrà affidare i 400 mila dollari da depositare in banca, con cui invece fuggirà via: dormirà in auto la prima notte, seminerà un poliziotto cambiando auto in un concessionario al mattino (ora il '59 sul parabrezza è diventato '89) e, infine, alla seconda sera, durante un diluvio che non le permette di proseguire, deciderà di entrare al Bates Motel...
Ovviamente nel film di Van Sant c'è tutto, molti dettagli compresi, ma tra le piccole aggiunte rientra il vezzoso ombrellino orientale in carta di riso di un bel color arancio, che Marion apre quando è dal concessionario, mentre è pressoché identico il fantastico mix sonoro che riproduce i pensieri di Marion alla guida, facendoci ascoltare le parole del poliziotto, del concessionario e dei colleghi in ufficio che parlano di lei e della sua sparizione con i contanti.
Anne Heche non è Janet Leigh, così come Vincent Vaughn non può essere Anthony Perkins, ma nel suo caso il ruolo di Norman Bates sembra attagliarsi molto meglio. L'incontro tra Norman e Marion funziona perfettamente, così come la loro cena con l'alienante litigio tra Norman e la madre che non vorrebbe saperlo a cena con la bella cliente appena arrivata. Alle pareti, oltre ai quadri con gli uccelli e ai volatili impagliati, che confermano la passione per la tassidermia di cui Norman ha appena parlato con Marion, la scenografia prevede molti dettagli che Alfred Hitchcock, con la sua formazione da scenografo, volle per arricchire le chiavi interpretative della pellicola, come ha splendidamente spiegato in un bellissimo libro Guido Vitiello (Una visita al Bates Motel, 2019).
Susanna e i vecchioni di Van Mieris
e La serratura di Fragonard
Eppure, qua e là, i dipinti vengono spostati o sono diversi. Per esempio, quando Norman solleva il quadro per spiare Marion che sta per spogliarsi prima di entrare nella doccia, l'opera che nella pellicola originale era la Susanna e i vecchioni di Willem van Mieris (1731, già Perpignan, Musée d'Art Hyacinte-Rigaud, da cui fu rubato nel 1972), qui è ora su un'altra parete e il suo posto è occupato da La serratura di Jean-Honoré Fragonard (1771, Louvre), forse una sorta di aggiornamento iconografico rispetto alla violenza che si sta per perpetrare. E una clamorosa differenza c'è anche in camera della signora Bates, dove la Lila Crane interpretata da Vera Miles si trovava davanti la riproduzione della statua in bronzo del Dolore di Orfeo di Raoul Verlet (1887, Musée des Beaux-Arts d'Angouleme), mentre la Lila Crane-Julianne Moore del remake vede il bronzo del Mercurio volante di Giambologna del Bargello, ma concepito per Villa Medici a Roma (dove oggi c'è una copia).
La leggendaria sequenza della doccia ovviamente è fondamentale anche nel film del 1998 e, fatta eccezione per pochi ininfluenti dettagli, come una tendina dall'effetto smerigliato e un soffione ottagonale invece che circolare, per il resto è tutto davvero identico, compreso il vortice creato dall'acqua e dal sangue che si uniscono, qui meglio dato il colore, e che diventa splendida ellissi cinematografica nel parallelo con l'occhio senza vita della vittima che ruota, nel rifacimento, molto più velocemente che nell'originale (remake / originale). Inspiegabilmente, però, Van Sant aggiunge nel montaggio, che alterna i movimenti di Marion e quelli di Norman (nell'originale ben 78 inquadrature e 52 stacchi), un'espressionistica inquadratura delle nuvole gonfie che rompe la perfezione hitchcockiana.
Sistemato il cadavere, gettato nel vicino stagno nella Volvo affittata da Marion - nell'originale era una Ford -, la seconda parte del film è caratterizzata dalle indagini dell'investigatore Arbogast (William H. Macy), ingaggiato per scoprire che fine abbiano fatto i 400 mila dollari scomparsi, e da quelle parallele della sorella di Marion, Lila (Julianne Moore), e di Samuel.
Molto bello il momento in cui Arbogast chiede a Norman di vedere il registro dei clienti per capire con quale nome abbia firmato Marion, e il ragazzo allunga il collo per sbirciare, su cui Van Sant, se possibile, indugia ancora di più di Hitchcock.
La morte di Arbogast, con il taglio sul volto, mentre cade quasi volando sulla scala di casa Bates, è un'altra delle sequenze cult del capolavoro del 1960. Nel rifacimento, però, Van Sant aggiunge delle visioni molto lynchiane dell'investigatore che proprio mentre sta per morire vede una donna nuda con una benda sugli occhi (lui che è appena stato colpito all'occhio) e un vitello in mezzo alla strada, chiaramente assenti nell'originale. 
Seguono il dialogo tra Norman e sua madre che non vuole scendere in cantina e poi l'arrivo di Lila che continua le ricerche prima nella già citata stanza della signora Bates, quindi in quella di Norman, dove gli elementi che ricostruiscono il passato del protagonista sono aggiornati a un'infanzia e a un'adolescenza vissute negli anni '60-'70, con soldatini, gagliardetti sportivi e riviste erotiche che non comparivano nel film di Hitchcock, oltre al differente disco sul piatto, l'Eroica di Beethoven nell'originale, la country The worlds needs a melody cantata da George Jones e Tammy Wynette nel remake. La passeggiata piena di suspense della ragazza termina proprio nella cantina, dove la donna colpisce involontariamente il lampadario facendolo oscillare in uno dei movimenti più citati della storia del cinema, ma nella quale, stavolta, il laboratorio tassidermico di Norman appare ben più dettagliato e curato, persino con alberi finti su cui svolazzano degli uccelli, tra i quali alcuni pappagallini verdi.
Van Sant, infine, andando oltre il modello, fa persino passeggiare un ragno sul teschio della signora Bates (qui un bel montaggio  che mette a confronto diverse sequenze del film, questa compresa).
L'epilogo esplicativo dello psichiatra e, quindi, i pensieri di Norman con la personalità della madre riproducono fedelmente l'originale, ma il piccolo capolavoro registico di Van Sant è nella splendida aggiunta con l'inquadratura dalla feritoia in cui entra la mdp, proprio come aveva fatto all'inizio dalla finestra dell'albergo.
Auto dragata dallo stagno. Titoli di coda.

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