venerdì 27 marzo 2020

Shutter Island (Scorsese 2010)

Tratto dall'omonimo romanzo di Dennis Lehane (2003), è indubbiamente il film più kafkiano e polanskiano di Martin Scorsese, che tanto deve, per atmosfere, parte del contesto e, soprattutto, per il rapporto realtà-follia, ad uno dei più grandi capolavori del cinema muto: Il gabinetto del dottor Caligari (Wiene 1920; guarda).
A differenza, però, dei film di Polanski, in cui il sottile crinale tra realtà e illusione è sempre impercettibile e sfumato, qui Scorsese, anche più che negli ultimi venti minuti del capolavoro espressionista tedesco, spiega in maniera chiara, eppure lasciando sempre spazio all'ambiguità, che quella che per gran parte della storia appare come un'indagine eroica, si tratta in realtà di uno dei peggiori incubi psicologici di un individuo. Il dettaglio, di non poco conto, rende la pellicola più drammatica di un comune thriller e mette lo spettatore in una posizione di maggior empatia con il protagonista e non è un caso che l'anagramma di Shutter Island sia Truths and Lies (trailer).

Boston, Harbor Islands 1954.
Gli agenti dell'FBI Edward Daniels (Leonardo DiCaprio) e Chuck Aul (Mark Ruffalo) si conoscono sul traghetto. Il primo, vedovo dopo la scomparsa della moglie Dolores (Michelle Williams), è un reduce dei contingenti alleati in Europa durante la Seconda guerra mondiale e ha partecipato alla missione di Dachau, un'esperienza indelebile che ancora oggi ricorda spesso.
L'obiettivo dei due è raggiungere una piccola isola completamente occupata da un manicomio nonché carcere di massima sicurezza per pazienti pericolosi, perlopiù omicidi, e indagare sulla fuga di una detenuta, Rachel Solando (Emily Mortimer), che era lì per aver affogato i suoi tre figli ed era in cura con il dottor Sheehan, ora in vacanza.
La conformazione dell'istituto, però, collegato alla terraferma solo attraverso i traghetti in partenza dal molo, e per il resto posto a strapiombo sul mare e con le mura completamente elettrificate, rende quell'evasione ancora più misteriosa.
Data la pericolosità e l'instabilità dei detenuti, Edward e Chuck dovranno attenersi ai protocolli e muoversi all'interno del manicomio senza armi, come gli spiega il poliziotto Warden McPherson (John Carroll Lynch), che poi li condurrà dal dottor John Cawley (Ben Kingsley), il direttore sanitario dell'istituto, che ha come collega l'inquietante Jeremiah Naehring (Max von Sydow), le cui origini tedesche fanno subito dubitare Edward di cosa avvenga davvero in quel posto, tanto più mentre nella sala risuona un disco di Mahler, che tanto gli ricorda i giorni a Dachau.
Nulla sembra avere un senso, e le piste che si aprono durante la storia si aggrovigliano sempre più, anche grazie al coinvolgimento di altri personaggi, perlopiù detenuti (o meglio pazienti, l'unico modo con cui Cawley pretende vengano chiamate le persone lì rinchiuse) che parlano con gli agenti.
Tutto contribuisce a confondere le acque e, tra i tanti dettagli, lo spettatore, insieme al protagonista, dovrà fare i conti con luoghi inarrivabili, come il faro dell'isola; pareidolie, come il corpo di Chuck su uno scoglio, che una volta visto da vicino si rivela essere una semplice macchia; nomi da anagrammare; persone introvabili, come Andrew Laeddis, un tempo addetto alla manutenzione nel condominio dove Edward viveva con la moglie, nonché piromane che scatenò l'incendio in cui perse la vita Dolores. Forse Edward riuscirà anche ad incontrare e a parlare con Andrew (Elias Koteas), ustionato e con taglio sul volto, sorta di novello Freddie Krueger.
Eppure tutto assumerà un senso...

Il film è bellissimo e Scorsese gioca coinvolgendo lo spettatore in maniera decisamente hitchcockiana. Il maestro del brivido viene anche citato in alcuni momenti: l'emicrania che colpisce Edward, che finisce in uno stato allucinatorio e di profondo malessere, genera uno dei tanti dubbi in chi guarda, al pari di quello che succede ne Il sospetto (1941), nella famosa sequenza del bicchiere di latte che Cary Grant porta all'allettata Joan Fontaine; e così, in uno dei tanti flashback, Edward abbraccia e bacia la moglie, mentre la mdp gli gira intorno, proprio come nel celeberrimo bacio circolare tra James Stewart e Kim Novak ne La donna che visse due volte (1958), film che come Le catene della colpa (Tourneur 1947) Scorsese fece vedere all'intera troupe per far capire l'atmosfera che voleva.
I flashback sono uno dei motivi portanti dell'intera pellicola e Scorsese li gira in modo sopraffino, coadiuvato dalla bellissima fotografia del grande Robert Richardson (tre Oscar e una carriera di capolavori alle spalle). Tra questi, oltre quello del bacio tra DiCaprio e Michelle Williams, va segnalato un altro magnifico momento tra i due sposi, colti in un abbraccio che nel sogno-visione del protagonista viene amplificato visivamente da una pioggia di cenere e dalle fiamme, il tutto con il bellissimo sottofondo musicale di On the nature of daylight di Max Richter, solo uno dei brani di una perfetta colonna sonora selezionata e curata da Robbie Robertson (ascolta).
Oltre ai momenti romantici, le sequenze analettiche nei ricordi di Edward sono dedicate anche alla liberazione di Dachau, di cui ad ogni ripresa la regia aggiunge qualcosa in più, creando di fatto una storia nella storia: la struggente immagine dei cadaveri degli ebrei ammassati nella neve, tra i quali il protagonista vedrà anche Rachel con la figlia, si alterna a quella dell'ufficiale nazista morente, a cui Edward impedisce di prendere la pistola, in una bella inquadratura dall'alto, che tanto ricorda il finale di Taxi driver (Scorsese 1976). In uno dei flashback relativi alla guerra, il regista newyorchese mostra una fucilazione da parte dei soldati americani ai danni dei tedeschi, girata con uno splendido e unico movimento di carrello che corre dietro ai corpi dei fucilati.
Tutto mette molto in apprensione, dagli ambienti, ai personaggi, al tempo atmosferico, che per buona parte del film è complicato da un uragano che si abbatte sull'isola. Tra i luoghi più inquietanti c'è, però, il padiglione C, quello dove sono rinchiusi i pazienti più pericolosi. Qui la perfetta scenografia di Dante Ferretti gioca una ruolo basilare: strutture labirintiche, gabbie e scale escheriane, tutte rigorosamente riprese in una condizione di penombra, ne costituiscono gli elementi principali. E nella stessa sequenza, Edward che passa in un corridoio fiancheggiato da celle, rende tutto ancora più kafkiano, soprattutto perché paragonabile, seppur con le dovute differenze, ad una sequenza de Il processo di Orson Welles (1962), in cui Anthony Perkins era rincorso da bambini (sic) tra scale e stanze fatte di assi di legno (vedi). Lì tanta luce del giorno ad illuminare la scena disturbando il protagonista, qui invece Edward costretto ad usare i fiammiferi per riuscire a vedere qualcosa, ma ugualmente infastidito.
Tra i temi centrali della pellicola c'è la violenza: ne parla Jeremiah Naehring ai due agenti: Voi siete uomini di violenza, non vi sto accusando di essere uomini violenti, c’è una gran differenza [...] fin dai tempi della scuola nessuno di voi si è tirato indietro di fronte a uno scontro fisico, non perché vi piaccia, ma perché ritirarsi non la considerate un'opzione"; più avanti uno dei militari dice a Edward "Dio ci ha dato la violenza per compierla in suo onore", frase degna del Vecchio Testamento.
E come sempre in Scorsese, la morale ebraico-cristiana è molto forte, e i continui sensi di colpa del protagonista ne rappresentano una conferma anche in questo film. Nella già citata visione dei corpi nella neve, la figlia di Rachel rimprovera a Edward "avresti dovuto salvarci tutti"; tra le celle del padiglione C, il recluso George Noyce (Jackie Earle Haley) gli dice che se è lì è a causa sua.
Ad aumentare la costante sensazione di inquietudine del protagonista, e dello spettatore con lui, diversi personaggi gli lanciano contro quello che sa di un anatema: "tu non lascerai mai quest'isola". Una frase, quest'ultima, che gli ripete anche una dottoressa (Patricia Clarkson), che gli racconta di come abbia dovuto sostenere anche lei stessa una simile storia kafkiana in quel posto, messa fuori gioco dagli altri psichiatri, e che dice una delle battute più rilevanti nella sceneggiatura firmata da Laeta Kalogridis: "una volta che sei dichiarato pazzo, tutto quello che fai è considerato parte di quella pazzia: le ragionevoli proteste sono negazione, le paure giustificate paranoie".
Un concetto che torna più volte durante il film è che viene espresso anche come "i pazzi sono dei soggetti perfetti: parlano e nessuno li ascolta". E in fondo, come dirà lo stesso Edward, "cosa sarebbe peggio: vivere da mostro o morire da uomo per bene?", in un'altra battuta emblematica, e forse fuorviante, di una pellicola che non lascia mai abbassare la guardia al suo spettatore, costretto a lambiccarsi il cervello dall'inizio alla fine.
Nabucodonosor impazzito di William Blake (1795-1805)
Sogno e pazzia sono un binomio inscindibile per tutto il film: il dottor Naehring, per esempio, ricorda che la parola 'trauma' è la stessa di 'traum', che in tedesco sta per sogno, mentre, con una certa attenzione, la chiave che unisce i due elementi ci viene mostrata all'inizio della storia, quando Edward, guardando una parete dell'ufficio di Cawley, decorata con diverse immagini, sofferma lo sguardo sulla stampa di Nabucodonosor di William Blake: il re di Babilonia impazzito dodici mesi dopo il sogno interpretato per lui dal profeta Daniele (4, 1-33).
Shutter Island è un capolavoro da qualunque punto di vista lo si voglia guardare, per riferimenti cinefili, per le interpretazioni, per la colonna sonora, per la fotografia e, infine, perché no, per questa nascosta e intrigantissima chiave iconografica.

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